Cosa accade quando i diretti eredi del fascismo – una formazione politica fondata su un’ideologia ed un atteggiamento esistenziale irreversibilmente condannati dalla storia per gli infiniti lutti e distruzioni che hanno prodotto, per il fiume di sangue che hanno versato, per i guasti morali e civili che hanno operato, per le divisioni, gli odi, i rancori che hanno seminato, per l’incultura e l’inciviltà che hanno diffuso – cosa accade quando costoro arrivano al potere in un Paese la cui Costituzione democratica è germinata dalla lotta di Resistenza a loro mossa, dall’assoluto rifiuto di tutto ciò che essi incarnano? Accade quel che è sotto gli occhi di tutti gli italiani: si falsificano gli eventi storici, se ne capovolgono i significati, si propina a masse di incolti senza memoria ignobili verità di comodo che hanno dell’osceno.
A controcanto delle parole pronunciate nell’anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine dalla Presidente del Consiglio, la quale proprio non riesce a pronunciare il vocabolo “antifascista”, ecco le dichiarazioni del Presidente del Senato Ignazio La Russa diramate tramite uno dei numerosi megafoni a sua disposizione, un podcast di “Libero Quotidiano”, parole che, più che dalla seconda carica di quello Stato repubblicano e democratico sorto dalla lotta ad un efferato regime che ha schiacciato per oltre vent’anni l’Italia sotto il suo tallone di ferro, paiono provenire da un incolto ed esaltato iscritto di una sede periferica della Fiamma tricolore: “Via Rasella è stata una pagina tutt’altro che nobile della Resistenza, quelli uccisi furono una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS, sapendo benissimo il rischio di rappresaglia su cittadini romani, antifascisti e non”. E ancora, rivelando l’obiettivo ideologico della sua infausta uscita: “I partigiani rossi volevano il comunismo, non la libertà”.
In risposta al vespaio suscitato da tali incaute parole (“indegne” le ha definite il Presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo), La Russa ha ancor più incautamente precisato: “Cercare l’errore nelle parole è impotenza politica. Non posso sbagliare una parola, gli altri guardano a quello che dico io dall’alto. […] È impotenza politica, è un modo per sfuggire all’incapacità di avere altri argomenti più seri e svolgere un ruolo politico, che è quello dell’opposizione. […] Quando vai a contestare parole per parole sperando sempre di dire ‘ha sbagliato perché non ha detto le parole che avrei detto io’. Loro vogliono che noi del governo dicessimo ciò che loro vorrebbero dire, non accettano che usiamo altre parole”.
Ci sarebbero molte considerazioni da fare su un tale semplicistico e basico argomentare. “Impotenza politica”, esimio La Russa, è far passare in silenzio le castronerie storiche che ella ha voluto ammannire ai cittadini per pura ignoranza, per preciso calcolo politico o per entrambi. Il “ruolo politico dell’opposizione” – e non solo, anche quello di ogni cittadino avvertito che non intenda trangugiare sciocchezze propalategli dall’alto – è esattamente quello di “cercare l’errore” nelle sue parole, poiché sono le parole di un rappresentante apicale dello Stato democratico e non quelle di uno sciamannato pronunciate nel retro di un bar con la stecca in mano davanti ad un tavolo da biliardo. Il “ruolo politico dell’opposizione” e di chiunque abbia a cuore la libertà e la democrazia è precipuamente quello di sbugiardare patenti falsità, ripristinando la verità storica, il contesto, il significato di eventi oltretutto così luttuosi.
La visione di un mondo diviso in “noi” e in “loro”, il non voler accettare il contraddittorio, il non tollerare di essere messi in discussione, il non saper ammettere i propri errori sono le caratteristiche ideologiche ed esistenziali della sua visione politica. Questa ed altre sue pubbliche uscite da quando è assurto alla seconda carica dello Stato repubblicano, che dovrebbe in altro modo onorare, sono la prova lampante che per storia, tradizione, posizione ideologica ed umana i rappresentati della formazione politica da cui ella proviene sono costitutivamente incapaci di assurgere a posizioni di governo del Paese. Non si esprime in modi così rozzi e maldestri un Presidente del Senato, non pronuncia parole così divisive, non semina scontri e dissidi, esclusioni e rimozioni. Soprattutto, non falsifica la storia, in particolare quella storia che per la prima volta dal sorgere della nostra entità nazionale ha determinato la nascita della democrazia repubblicana. In tal modo, esimio presidente La Russa, la classe che lei rappresenta si dimostra non all’altezza dell’alto compito che le si richiede.
L’altra considerazione suscitata dalle sue sconsiderate parole è di ordine storico, ma ha ovviamente una rilevanza politica. Esse sono chiaramente parte di un preciso, reiterato, pervicace tentativo di delegittimazione della lotta antifascista della Resistenza, portato avanti da anni da qualche sparso storico di secondo ordine in cerca di un posto al sole, da qualche generale incolto e colluso, qualche personaggio privo di qualsivoglia preparazione storica e culturale puntualmente inviato come testa di ponte in grossolani programmi televisivi, soprattutto da un agguerrito stuolo di pennivendoli mascherati da giornalisti. Considerata l’entità e la pervasività di questo progetto, più che revisionismo è in atto una vera e propria campagna di falsificazione storica, ma con una novità: oggi persino i rappresentanti più alti delle istituzioni sono implicati in questa immorale manipolazione del passato.
Lei ha definito le vittime dell’attentato dei partigiani romani “una banda musicale di altoadesini”. Sappia invece che si trattava del terzo battaglione del Polizeiregiment Bozen, incardinato nella polizia nazista, quella stessa che in quei tragici mesi con l’operoso lavoro dei suoi padri nobili fascisti torturava e uccideva tutti coloro che avevano il coraggio e l’ardire di opporsi ad un’occupazione selvaggia e bestiale. Non si trattava di “semi-pensionati e non nazisti”, bensì di un reparto militare della Ordnungpolizei creato in Alto Adige dai nazisti nell’autunno 1943, in cui il più anziano delle vittime aveva 42 anni.
Il suo pronunciamento, esimio Presidente La Russa, si accoda ad analoghi tentativi in atto da lungo tempo: negare la legittimità morale e l’efficacia militare dell’azione partigiana. Allora sappia che il reparto militare schierato a Roma era il terzo di tre battaglioni specificamente costituiti e impiegati per attività antipartigiane: il primo fu inviato in Istria, il secondo operò nel bellunese, dove nell’agosto del 1944 fu coinvolto nella strage della valle del Biois.
Sappia, presidente La Russa, che nel 1957 la Corte di Cassazione, sommo istituto giudiziario dello Stato di cui lei rappresenta la seconda carica, con una pronuncia delle Sezioni unite civili stabilì la legittimità dell’azione partigiana dell’attentato di via Rasella quale atto di guerra, e che già nel 1950 il capo del V esecutivo della Repubblica italiana Alcide De Gasperi aveva conferito delle medaglie d’argento al valor militare ad alcuni gappisti con motivazioni che facevano esplicito riferimento all’azione di guerra del 23 marzo 1944.
Sappia, senatore La Russa, che nel 1999 la Corte di Cassazione penale dispose l’archiviazione di un processo penale a carico di tre ex gappisti in quanto l’attentato non era assimilabile ad alcun reato: era un’azione di guerra da parte di combattenti che, a differenza d’una massa sconfinata di ignavi, avevano deciso di rischiare la vita e ogni affetto per sconfiggere uno dei più grandi mostri partoriti dal Ventesimo secolo: il nazifascismo.
Le sue dichiarazioni, presidente La Russa, non sono soltanto storicamente false e pretestuose: sono eticamente disdicevoli.