Addio a Harry Belafonte: mito della musica e paladino dei diritti civili
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Addio a Harry Belafonte: mito della musica e paladino dei diritti civili

Addio a Harry Belafonte, che negli anni 50 aveva sfondato le classifiche pop ma anche le barriere della razza, diventando una forza nel movimento per i diritti degli afro-americani

Addio a Harry Belafonte: mito della musica e paladino dei diritti civili
Harry Belafonte
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25 Aprile 2023 - 17.43


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Una grave perdita: un pezzo di storia della musica e dell’impegno civile che se ne va: addio a Harry Belafonte, che negli anni 50 aveva sfondato le classifiche pop ma anche le barriere della razza, diventando una forza nel movimento per i diritti degli afro-americani, è’ morto a 96 anni nella sua casa dell’Upper West Side di Manhattan.

Nato a Harlem da genitori originari di Martinica e di Giamaica, amico da giovane di Martin Luther king e da vecchio grande oppositore di Donald Trump, Belafonte portò alla ribalta la musica caribica con canzoni come Day-O (The Banana Boat Song) e Jamaica Farewell. L’album Calypso, che le conteneva entrambe, fu il primo di un artista in assoluto a vendere più di un milione di copie. Tre anni fa le sue carte erano tornate a casa, allo Schomburg Center for Research in Black Culture, che ha sede a dieci isolati dall’Apollo Theatre dove quell’anno Harry aveva festeggiato i 93 anni in uno degli ultimi singalong prima del lockdown da Covid.

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Belafonte ha avuto una lunghissima vita in cui arte e attivismo politico si sono continuamente intrecciati. È stato amico di Marlon Brando e Mlk, dei Kennedy e di Nelson Mandela. Banana Boat, una delle sue canzoni più famose interpretata in Italia da Pino Daniele, Celentano e Mina, evocava i portuali del turno di notte che, dopo aver caricato la bananiera, volevano tornare a casa. Erano seguiti Matilda, Lead Man Holler e Scarlet Ribbons. Nel 1959 Harry era l’uomo di spettacolo di colore più pagato della storia, con contratti a Las Vegas, il Greek Theater di Los Angeles e, a New York, il Palace e il Waldorf Astoria. Cantava la musica dei neri e dei Caraibi, ma i suoi fan in stragrande maggioranza erano bianchi, una ambiguità che lo accompagnò a lungo nella sua carriera. Primo nero a a vincere un Emmy e il primo a sfondare a Hollywood, presto però superato da Sydney Poitier. Ma il richiamo del cinema aveva continuato a farsi sentire: Belafonte aveva interpretato se stesso nel 1992 in The Player di Robert Altman e poi sempre con Altman aveva girato Kansas City del 1996 per cui aveva vinto un premio della critica newyorchese. Il suo ultimo ruolo nel 2018 fu in BlacKkKlansman di Spike Lee.

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Bello e carismatico, si era fatto le ossa come artista all’American Negro Theater, la cui prima sede era in una cantina dell’edificio che ospita lo Schomburg. Harry aveva 19 anni ed era stato da poco congedato dalla Navy quando cominciò a lavorare come factotum al teatro dopo che un’attrice, a cui lui aveva fatto lavoretti in casa, gli aveva regalato un biglietto. «Avrei preferito cinque dollari», aveva detto poi al New York Times: «Ma una volta messo piede in quel posto, non mi sono più guardato indietro».

Non solo musica però. Amico fin dagli anni ’50 di Martin Luther King, era lui a pagare quando il padre dei diritti civili veniva arrestato e gli aveva aperto da subito la sua casa di New York. Belafonte fu anche in prima fila nella Freedom Summer e la marcia del 1963 su Washington, il boicottaggio dell’apartheid in Sud Africa negli anni Ottanta e il concerto We Are the World con Stevie Wonder, Michael Jackson, Bob Dylan e Cyndi Lauper. Nel 1987 aveva raccolto da Kanny Kaye il ruolo di ambasciatore di buona volontà dell’Unicef. Era rimasto attivo in politica anche in vecchiaia: «Se Trump ci chiede cosa abbiamo da perdere», aveva scritto nel 2016 in un op-ed sul New York Times in cui invitava gli afro-americani a non votare il tycoon, «rispondetegli: solo il sogno, solo tutto».

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