di Rock Reynolds
È la questione del momento, o meglio, la è da qualche anno. Il fatto è che, se l’Europa non l’affronta seriamente, tale questione rischia di diventare un problema epocale e di trasformarsi in qualcosa di incontrollabile, pronto a deflagrare. Stiamo naturalmente parlando dell’immigrazione. E, di conseguenza, dell’accoglienza.
Cosa vengono a fare da noi? Sono troppi. Cosa sperano di trovare? Qui da noi non ci sono nemmeno le risorse per i poveracci italiani. Ci fagociteranno. La nostra cultura, frutto di secoli di storia, rischia di capitolare sotto i colpi di mentalità aliene, ostili, spesso in contrapposizione assoluta rispetto alla nostra. Perché vengono se non sono pronti ad abbracciare i nostri valori? Noi a casa loro non ci comporteremmo come si comportano loro da noi. Perché gli lasciamo costruire i loro luoghi di culto e fare di testa loro quando, nei loro paesi di provenienza, nulla di tutto ciò verrebbe mai permesso? Perché diamo a loro risorse che farebbero comodo ai nostri cittadini bisognosi? Da noi viene solo la feccia e la delinquenza aumenta.
Sono tutte obiezioni con un fondo di verità. Ma quel substrato che le ancora alla realtà è talmente gonfio di una propaganda politica che alimenta il fuoco dell’ignoranza e che sulla contrapposizione costruisce consensi da perdere la minima credibilità.
Che cosa vengano a fare i migranti non ha bisogno di grandi spiegazioni: fanno quello che nella storia dell’umanità si è sempre fatto, ovvero cercano un avvenire più propizio, con l’unica differenza che oggi gli spostamenti sono più rapidi. Nelle migrazioni di massa ci sono i buoni e i cattivi soggetti. E pensare di concedere qualcosa a un individuo solo se il governo di casa sua fa altrettanto con i nostri concittadini che risiedono nel suo paese contravviene al concetto stesso di democrazia occidentale a noi tanto cara: le cose si fanno perché sono giuste, non perché abbiano equivalenza, una questione tecnica che, semmai, pertiene agli accordi bilaterali tra gli stati.
Nel 2018, incontrai il giornalista inglese Tim Marshall che aveva da poco dato alle stampe il libro I muri che dividono il mondo (Garzanti) e che sosteneva che, secondo dati raccolti da fonti dell’ONU, il tasso di crescita della popolazione africana era tale che, entro il 2050, avrebbe raggiunto quota un miliardo e mezzo, senza che i posti di lavoro aumentassero proporzionalmente. Se questo trend si fosse confermato, di certo il tipo di processo migratorio a cui l’Europa avrebbe assistito da lì a trent’anni sarebbe stato realmente epocale. Lo stesso giornalista era convinto che tale fenomeno fosse assolutamente ineluttabile e che l’unico modo per non farsene travolgere sarebbe stato governarlo e non tentare di opporvisi. «Se l’Europa non inizia a ragionare in termini seri e costruttivi su un processo di accoglienza condiviso e coordinato, verrà sopraffatta da un’ondata migratoria senza precedenti. Il che potrebbe davvero significare la Terza Guerra Mondiale.» Pensate, per esempio, a quanto successo nel 1991, dopo la caduta del governo comunista di Tirana, quando un numero enorme di profughi albanesi sbarcò in brevissimo tempo sulle coste pugliesi. L’Italia non era pronta e quell’improvviso esodo di massa fu gestito a fatica. La parola “albanese” divenne sinonimo di canaglia, di delinquente, di brutta gente. Eppure, oggi gli albanesi sono in larga parte perfettamente integrati nel tessuto sociale italiano e non sono più considerati feccia. Gli strali del populismo hanno cambiato bersaglio.
Allora cosa si deve fare? si chiedono in tanti. C’è una sola risposta, ovviamente complicatissima e che necessita di grande impegno, ma non sembrano esservi alternative. Lo dicono i maggiori esperti della materia. L’Europa si deve preparare ad accogliere un numero elevatissimo di profughi e a integrarli, concedendo a tutti (previ i debiti controlli, naturalmente) il diritto a vivere e a cercarsi un lavoro sul suo territorio. D’altro canto, la natalità in Europa è in calo e in Italia è sotto lo zero. Può non piacere, perché significa confrontarsi con il diverso e dover rinunciare a qualcosa. E può voler dire fare i conti con le paure ancestrali di ogni popolo. Ma non prepararsi significa rischiare concretamente di subire un’invasione, non una migrazione, come diceva Tim Marshall. E significa pure non fare gli interessi dell’Europa stessa. D’altro canto, noi europei per primi, quando ci conveniva farlo, siamo andati a casa di chi oggi cerca asilo da noi e abbiamo spolpato le loro risorse con le nostre avventure coloniali. Si pensi a Francia, GB, Belgio, Spagna, Portogallo, Germania, Olanda, URSS e ora pure a Cina e USA. Anche noi italiani abbiamo tentato la conquista del Corno d’Africa e della Libia. E si pensi al mondo capitalista occidentale (e ora pure alla Cina) che, per alimentare il proprio stile di vita, continua a tenere soggiogate quelle popolazioni e a sostenere governi fantoccio e corrotti.
È uscito da poco un libro stringato quanto profondo. Accogliere (PIEMME, pagg 112, euro 17,90) è – nel solco della intelligente collana “Confronti”, che si prefigge di far dialogare due figure apparentemente distanti, se non inconciliabili, su temi di grande respiro – una sorta di discussione sulla questione dell’accoglienza tra Lucio Caracciolo (direttore della rivista di geopolitica “Limes” da lui fondata nel 1993) e Andrea Riccardi (storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio nel 1968). Le loro sono due posizioni diverse che, però, con il garbo che li contraddistingue da sempre, non cercano scorciatoie e trovano un sentire comune, sempre con un occhio alla concretezza. Questo è uno di quei libri che, oggi più che mai, sarebbe giusto far leggere agli studenti delle superiori. I due autori hanno accettato di rispondere ad alcune nostre domande.
Lucio Caracciolo. Lei e Andrea Riccardi vi conoscevate bene ancor prima di unire le forze per questo libro?
Andrea e io ci conosciamo da più di trent’anni, dall’inizio dell’avventura di “Limes” che abbiamo intrapreso insieme e che senza di lui sarebbe stata ben più povera. Soprattutto, per me è un amico.
Si tende a considerare la geopolitica una materia “arida”, poco propensa a gettare un occhio sugli aspetti umani. Come si è trovato a intavolare un dialogo come questo?
Non conosco questa tendenza, ma la geopolitica non fa analisi scientifiche, non pretende di disporre di leggi universali e soprattutto si basa sul fattore umano. A questo tavolo mi sono quindi trovato a casa.
Cosa significa accogliere per uno scienziato della geopolitica?
Premesso che ovviamente non sono uno scienziato per ragioni soggettive (a scuola ero una scarpa in matematica e scienze e, in seguito, non sono migliorato) e oggettive (la geopolitica non è una scienza), per me significa accogliere nel senso primario del termine. Ammettere in casa propria lo straniero perché la mia casa diventi anche sua. Sapendo che ogni individuo, ogni comunità e ogni Stato applicano e declinano questa possibilità a modo loro e nei limiti che considerano possibili. Oppure la rifiutano. E su questo si concentra l’analisi geopolitica, che si riferisce sempre a casi specifici nel contesto storico e spaziale determinato.
Andrea Riccardi, che rapporto ha con Lucio Caracciolo?
Siamo amici da molti anni e da tanto, nelle nostre conversazioni, proviamo a leggere la realtà in movimento del mondo di oggi. È un’avventura intellettuale e di amicizia che è cominciata negli anni Novanta e che ci accompagna verso il futuro.
Chi parla di aprire il cuore e le braccia a chi emigra viene spesso tacciato di buonismo. Le è capitato di rispondere a tale provocazione con strumenti più tipici del lavoro svolto da Lucio Caracciolo, ovvero con l’informazione?
Ma certo. Nel libro Accogliere si vede tutto questo. Infatti, l’accoglienza – per definire con questa espressione il rapporto con gli immigrati, i profughi e i nuovi europei – è qualcosa di molto complesso: responsabilità verso chi arriva nel nostro paese, atteggiamento umano e umanitario, ma anche interesse dell’Italia, se vuole avere un futuro da un punto di vista demografico ed economico. Ho sempre creduto che motivazioni diverse si tengano insieme e non vadano separate: questo fa della nostra posizione qualcosa di estremamente ragionevole, ben diverso dall’irrazionalismo della paura. Con Lucio Caracciolo, da tanti anni, osserviamo con realismo, ma anche con passione, lo sviluppo dei rapporti tra i popoli e – va detto – i “popoli in movimento” sono uno dei maggiori fenomeni del nostro tempo.
Cosa significa accogliere per chi, come lei, ha fatto di quel verbo una vera e propria missione?
Accogliere riguarda certo i non italiani, ma credo sia una scelta esistenziale chiara, insomma un’apertura all’altro, fatta di interesse e legami. Ha una profonda radice spirituale. L’inaccoglienza caratterizza mondi spaventati che fuggono la storia perché ne hanno paura e la considerano oggi troppo invasiva. Ma è condizione di una personalità maturata quella di saper gestire l’incontro con l’altro, che è sempre un’invasione. La chiusura è un atteggiamento primordiale nei rapporti umani e sociali, che pare istintivamente garantire una difesa. Il Muro ne è il simbolo. Ma significa anche assenza di dialogo e di ascolto. Chiudersi non garantisce una vera “difesa” della propria identità, bensì un irrigidimento fondamentalista e settario, alla fine sterile. La propria identità si conserva e cresce, quando si gioca responsabilmente nelle relazioni con gli altri. E relazione è accogliere qualcosa dell’altro – o degli altri – in se stessi.