Pupi Avati: "L'immaturo che continuo ad essere"
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Pupi Avati: "L'immaturo che continuo ad essere"

Il regista bolognese si racconta mentre nelle sale c’è il suo ultimo film con Edwige Fenech, Gabriele Lavia e Lodo Guenzi

Pupi Avati: "L'immaturo che continuo ad essere"
Pupi Avati
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Marco Spagnoli Modifica articolo

24 Maggio 2023 - 11.48


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“Provenendo da un’esperienza musicale in cui appunto la competizione più che la condivisione è quella che fonda il rapporto tra le persone, questo film è quello in cui ho raccontato alcune mie debolezze come la gelosia. Un tema che solo fino ad una decina di anni fa non sarei stato capace di affrontare così.” Pupi Avati spiega il suo legame “intimo” con il suo ultimo lavoro “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”. “Secondo l’anno liturgico quella domenica è quella che segue la Quaresima e anticipa l’Avvento e per me è il giorno in cui mi sono sposato: il 27 giugno 1964. Così ho immaginato una separazione da mia moglie lunga 35 anni, nella reciproca aspettativa di vedere entrambi realizzare i nostri sogni. Ho poi pensato a un nuovo incontro in cui constatavamo quanto questi sogni non fossero andati in porto e quanto fossimo cambiati rispetto ad allora” 

Lei spesso con film come Festival e Quando arrivano le ragazze ha voluto affrontare il legame complesso, talora ‘sulfureo’ tra successo, gelosia, passione e pulsioni…

La mia esperienza mi dice, da mezzo secolo, che è altrettanto competitiva nel senso che c’è sempre un grande mix fra l’amicizia e la competizione: una miscela che, a sua volta, si va a mescolare al grande mix che c’è fra ‘amicizia e l’amore. 

Il suo è un altro racconto della straordinarietà della normalità…

E’ vero, i protagonisti dei miei film sono persone molto comuni alle prese con grandi sconvolgimenti interiori: questioni che erano già presenti in film di tanti anni fa come Impiegati, Regalo di natale, Quando arrivano le ragazze. E’ un leit motif che si ripete, questa amicizia che va a confrontarsi a un certo punto col tradimento. Addirittura va a confondersi col tradimento per poi tornare

ad essere amicizia o amore più di prima o no, a seconda delle storie, a seconda delle situazioni. Si tratta di esperienze vissute sulla mia pelle: io ho tradito e sono stato tradito, ho amato e sono stato riamato, ho invidiato e… no, non credo che sia stato invidiato. Del resto la normalità è sempre straordinaria, non ce ne rendiamo conto, ma ogni vicenda umana è assolutamente unica, eccezionale, irripetibile. Io vengo dalla stessa terra di Giorgio Morandi un pittore che ha trovato nella quiddità, cioè nel far diventare identitario qualcosa che generalmente non è considerato tale: Morandi aveva questa peculiarità che si traduceva in un atteggiamento di attesa che qualcuno ha definito con molto senso una sorta di  “preghiera”. Il pittore osservava e attendeva che una bottiglia diventasse una bottiglia così come faccio io che attendo nel mio cinema di osservare un essere umano nella sua vicenda più banale, più trita, più consueta, nella quale tutti possiamo in qualche modo riconoscerci.

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Io adoro le storie normali come questa così dove tutto è molto, molto, molto normale e tuttavia diventa eccezionale, proprio perché è il come la racconti che la fa diventare tale. Tutto dipende da quanto tu ti soffermi su quella quotidianità, su quella normalità di quegli sguardi e di quel amarsi o non amarsi per cui questa diventa una storia che vale la pena di essere vista.

Il suo è un cinema che non si può imitare, perché è basato su sguardi, interpretazioni, passioni, pulsioni, amori, odi, debolezze e momenti di sublimazione…per fare il cinema di Pupi Avati devi avere vissuto la vita di Pupi Avati: per questo i suoi film non assomigliano a nessun altro…

E’ possibile, ma si tratta sempre di sentimenti estremamente condivisi, perché poi vedo che le persone che vedono i miei film e si riconoscono. E’ difficile ammettere pubblicamente di ritrovarsi in personaggi e storie che trovano la propria nobiltà a dispetto di tutto per diventare racconto.  Questo è un film di una persona totalmente immatura quale io sono…una condizione che, forse, non mi fa onore è vero, ma che in un certo senso io rivendico. Lo dico con orgoglio: io non mi sono mai emancipato da quell’età, io non sono mai venuto via da quel chiosco di gelati dinanzi a cui si muovono i personaggi di questo film. Ho preferito portare via da Bologna il chiosco e l’ho portato a Roma dentro di me tutti questi anni. 

Un “immaturo” che come passa il suo tempo?

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Un immaturo di 84 anni, che è ancora un sognatore: io mi aspetto “ancora” di fare film della mia vita, io mi aspetto “ancora” di fare delle cose che diano un senso, una ragione alla mia vita. Ho fatto questo film anche per incontrare mio padre. E l’unico strumento di cui potevo disporre è ancora una volta il cinema. 

Altri registi non avvertiranno questa necessità di rendicontare al proprio genitore, ma io sì. Ho sentito, a un certo punto del mio percorso verso la fine, verso l’imbrunire, quello che ho fatto della mia vita.

E cosa cambia il tempo che passa nel cinema di un regista come Pupi Avati…

Nel mio cinema c’è il tentativo di cercare di assomigliare, di trovare persone che si riconoscono in quello che tu fai. E’ questo che mi sembra che dia grande senso a tutto un po’ come accade nelle dichiarazioni d’amore o d’amicizia:  il  primo si espone al rischio di sentire dall’altra parte uno che rifiuta il rapporto…

Io cerco un rapporto profondo con la vita e quindi con gli altri e quindi con il mio prossimo attraverso i film che faccio. Il tempo dei miei film è quello della mia vita: dieci anni fa, ad un’altra età non avrei avuto l’approccio di oggi…non avrei raggiunto questo livello di sincerità, di autocompiacimento nei riguardi dei propri limiti, dei propri difetti. 

Perché le donne dei suoi film come Edwige Feneche ne La Quattordicesima domenica del tempo ordinario, ma anche come Vittoria Puccini, Laura Morante, Francesca Neri, Vanessa Incontrada solo per citarne alcune diventano ‘indimentivabili’ nel suo cinema…

Le donne dei miei film le ho amate letterariamente dal momento in cui le ho descritte. Poi si materializzano e prendono le sembianze delle attrici, ma all’origine sono totalmente idealizzate. Devo, forse, ammettere che la donna, protagonista dei miei film è sempre la stessa e spesso si chiama Sandra come il mio primo amore che – anni dopo – è stata uccisa dal marito geloso dinanzi alla scuola della figlia. Dinanzi a questa protagonista  c’è una distanza che non cambia mai. C’è fra me e lei uno spazio che, grazie al Cielo, è rimasto incolmabile. Io sono sempre quel ragazzetto immaturo e giovane che a Bologna per fare colpo si beveva otto Campari Soda. Ecco io sono rimasto un po’ quello lì che le guarda ancora distante. Mi sento più vicino al Dante che prova a corteggiare Beatrice che ai miei figli cresciuti nella consapevolezza che una ragazza può essere anche un’amica. Per me una donna esisteva soltanto se me ne innamoravo, tutte le altre era come se non ci fossero. 

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Una volta lei ha detto di dovere tanto a sua moglie con cui vive da oltre mezzo secolo, perché l’ha sempre fatta stare sulle ‘spine’. Quanto dobbiamo a sua moglie i film che abbiamo visto…

È il cinema di un uomo che è rimasto aderente alla realtà della vita, alle piccole cose della vita perché mia moglie mi ha impedito di immaginarmi di poter essere veramente un autore, un regista. Questa è una cosa che mia moglie non crede e ha convinto anche me. Una consapevolezza che mi ripete e col suoi comportamenti dando un valore molto relativo a quello che faccio.

Tutto questo mi fa bene: mi sprona, mi spinge a restare molto vicino alla quotidianità. Io credo che la storia d’amore con mia moglie non cambierebbe se fossi un impiegato di banca. A lei non cambia nulla il fatto che io invece di andare in banca vado a raccontare la vita di Mozart, di Dante o dei personaggi della Quattordicesima Domenica del tempo ordinario. Se io scrivessi la mia autobiografia lei non la leggerebbe ed è questo che mi dà ancora più voglia di fare film, restando con i piedi per terra. 

Nessuna autocelebrazione famigliare?

L’altro giorno le ho letto una recensione bellissima di un grande critico che stimo molto, lei mi ha ascoltato e mi ha sorriso, poi mi ha chiesto cosa volessi mangiare per pranzo…

Questo è amore per quel ragazzo immaturo…

Sì, nel senso più sano, perché mi aiuta a restare qui a raccontare le mie storie e a continuare a sognarle. 

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