Molto prima di Emanuela Orlandi, un altro caso di ‘rapimento’ ha scosso il Vaticano al punto da farlo quasi “crollare” in senso letterale.
Dopo Vincere dedicato al figlio segreto di Mussolini, Bella addormentata sulla vicenda di Eluana Englaro, è la storia di un altro giovane a muovere il racconto dell’eterno ragazzo Marco Bellocchio che torna a riflettere sulla storia del nostro paese, attraverso personaggi apparentemente minori e che, invece, segnano indelebilmente il racconto morale ed etico dell’identità italiana.
E diciamolo subito senza remore, abusiamo di un termine abusato e che eppure resta l’unico possibile per questo film: Rapito è un “capolavoro”; un film che segna come pochi altri il laicismo del nostro paese e punta il dito contro una cultura ‘clericale’ per ricordarci che il Papa Re poteva tutto. Nella sua costruzione emotiva e psicologica, il racconto disperante che muove la sceneggiatura parte dall’assunto sconvolgente che tutto era permesso al pontefice guida spirituale e politica dello Stato: anche rapire il figlio ad una famiglia di Ebrei ed educarlo forzatamente e forzosamente da cattolico in nome di un battesimo di nascosto, amministrato da una balia convinta che il bambino malato, altrimenti sarebbe finito nel Limbo e non in paradiso.
Una storia emozionante e molto toccante da cui anche Steven Spielberg era stato in procinto di fare un film che era stato rimandato perché – si dice – il regista americano non avesse trovato l’interprete giusto per il piccolo protagonista. Che invece Bellocchio è riuscito ad individuare nel piccolo Enea Sala, un giovane attore che strazia il cuore dello spettatore con la sua innocenza emozionante e con la sua ambiguità sorprendente.
Questo uno dei tratti del film: quanto accade sfida la nostra visione del mondo e ci sorprende. In Rapito tutto va in un’altra direzione inattesa e – confessiamolo – capace di terrorizzare con la sua placida coltre di normalità.
Siamo nel 1858 e quando Edgardo Mortata viene rapito alla sua famiglia, ecco che lo Stato italiano si ribella come può in attesa di prendere Roma e riportare il ragazzo ai suoi genitori interpretati da due attori sempre più eccelsi nelle loro interpretazioni come Fausto Maria Alesi e Barbara Ronchi, attrice che ci ha abituato a sorprenderci, ma che questa volta tira fuori una femminilità severa e arcaica, restituendo il ritratto commosso, ma non patetico di una madre cui è stato rapito il figlio da un potere che lo vuole trasformare. Le sue parole sono la chiave del film, il suo personaggio il suo messaggio e la sua coscienza con cui lo spettatore deve fare i conti.
Il laicismo di Marco Bellocchio non è di intralcio, anzi. Il suo sguardo lucido ci permette di andare al fondo di un racconto identitario in cui il cinema è il paradigma di uno scontro tra religioni in cui quella cattolica e i suoi ministri mostrano una compassione, questa si mossa dal pietismo, nei confronti del piccolo ebreo che vogliono solo convertire. La predominanza cattolica è un fatto, la sottomissione degli Ebrei (e di tutti gli altri) pure, il fatto che le cose non si possano cambiare è un dogma che viene citato apertamente per farci capire che il dialogo è un’utopia e la fede un obbligo.
Ambiguo, sopitamente violento, potente ed emozionante Rapito tocca le vette sublimi e dolorose di un cinema in cui il dramma e la farsa vanno per mano, dominati da momenti disperanti come quello in cui l’inquisitore interpretato da un sulfureo Fabrizio Gifuni mostra allo spettatore la sua anima fanatica e intimamente quanto inesorabilmente violenta.
Un po’ come il Brando di Apocalypse Now! il Gifuni inquisitore che emerge dai chiaroscuri della prigione restituisce tutta la sua violenta qualità da “rettile”, da cane da guardia di una fede in cui la tolleranza è una parola interpretata alla luce di un potere esercitato in maniera spietata.
Gifuni è il braccio violento del Papato, Pio IX la sua anima apparentemente candida e super partes, ma – in realtà – amara e profondamente disturbata.
Niente e nessuno smuove le coscienze dei protagonisti e nemmeno del Papa Pio IX che interpretato da un Paolo Pierobon accattivante e violento al tempo stesso, intravede nella vita del bambino una ragione stessa dell’esistenza del Papato.
Piccolo spoiler emotivo: non basterà la breccia di Porta Pia allo spettatore per avere la vendetta che a dispetto delle proprie pacifiche convinzioni, albergherà nel suo cuore vedendo le scene strazianti, ma mai melodrammatiche di un bambino separato dai suoi genitori. E questo non per il finale a sorpresa della storia, quanto piuttosto per le problematiche lasciate aperte dal film e dalla presenza quantomeno ingombrante del Vaticano nello sviluppo culturale e sociale del nostro paese.
Tutto questo raccontato da un film che tutti dovrebbero vedere, perché Bellocchio, cresciuto fino a diventare il regista più lungimirante del cinema italiano, racconta in stato di grazia una vicenda fatta di persone normali (esattamente come Eluana e la sua famiglia o la donna innamoratasi da Mussolini e del loro figlio) alle prese con la grande Storia e ai suoi eventi spesso distruttivi ed implacabili.
Un film sul tempo che passa e sulle cose che si perdono inesorabilmente di sé stessi, ma anche dell’identità della propria epoca. Il finale del film è un colpo al cuore, ma anche un urlo di redenzione e di fermezza affidato ancora a Barbara Ronchi. Chi scrive non se ne è ancora ripreso, perché Rapito come gli altri film di questo immenso regista ha una particolarità: resta addosso diventando bagaglio e stimolo culturale per una riflessione personale che solo il grande Cinema ha il potere di ispirare.
Da non perdere
Rapito di Marco Bellocchio è in sala dal 25 maggio 2023
Argomenti: Cinema