di Rock Reynolds
È nato nel 1946 alle Hawaii, mentre ancora imperversava la Seconda guerra. Sua madre era a Pearl Harbor quando gli aere giapponesi sganciarono le prime bombe. Ha avuto un’infanzia quantomeno difficile e ha finito per essere adottato da una famiglia americana e per trasferirsi a vivere in California, dove ha conseguito un master a Ucla, prima di diventare un top manager di alcune importanti aziende automobilistiche giapponesi. Si chiama Dale Furutani ed è un favoloso scrittore che meriterebbe altra notorietà. Animato da interessi poliedrici e da quella curiosità per le cose della vita che caratterizza gli spiriti indomiti e le menti creative, Furutani è il perfetto esempio di come modernità a stelle e strisce, classicismo nipponico e forza del pensiero europeo possano combinarsi fruttuosamente.
Autore non esattamente prolifico, ha esordito con un poliziesco di ambientazione contemporanea, Death in Little Tokyo (scritto in inglese come ogni sua opera), ma si è fatto conoscere al pubblico italiano con quella che, nelle sue intenzioni, sarebbe dovuta essere la trilogia del ronin Matsuyama Kaze, un samurai caduto in disgrazia dopo aver perso il padrone. Nelle sue intenzioni perché, all’indomani di un periodo complicato per ragioni di salute (da lui stesso illustrate nella bella postfazione a cui il lettore può accedere inquadrando il codice QR al termine del suo ultimo romanzo) e per l’isolamento dovuto al Covid, Furutani ammette di essersi sentito “tirare la giacchetta” dal suo interessantissimo personaggio e di aver voluto tornare sui suoi passi.
Meno male che l’ha fatto perché Il ritorno del ronin (Marcos y Marcos, traduzione di Eugenio Manuelli, pagg 255, euro 18) è a buon titolo il migliore dei quattro. Il personaggio principale, un eroe involontario, sarebbe l’archetipo del seguace del bushido, la via del guerriero, se non avesse quella saggezza più da monaco zen soto che da samurai che lo spinge a rifuggire dalla violenza, a meno che non risulti l’unica strada percorribile.
Ne Il ritorno del ronin, Matsuyama Kaze è in cammino verso Osaka insieme a Kuko, la bambina affidatagli dalla sua padrona prima di morire. Nel tragitto, incontrerà anche Ranocchio, un contadinello impertinente, un ladruncolo a cui Kaze tutto sommato si affezionerà, tentando di impartirgli quegli insegnamenti che le sue umili origini gli hanno impedito di avere.
Dale Furutani è spesso classificato come un autore noir e certamente quell’etichetta non gli dispiacerebbe, considerata la sua passione per i romanzi di Arthur Conan Dolye. Dunque, l’intrigo non manca e, stavolta, Matsuyama Kaze dovrà vedersela con le misteriose uccisioni di funzionari incaricati di stanare eventuali cristiani, kirishitan, ostili. La storia è ambientata nel 1603, all’indomani della battaglia campale di Sekigahara (1600), ed è scritta con la semplicità che solo un grande autore riesce a non far scadere nel banale. Dale Furutani è un grande autore. Bastano poche righe come le seguenti per capirlo: «si ritrovarono senza un ruolo in una società in cui il ruolo e lo status erano tutto. Divennero ronin – “uomini onda” – senza radici, né impiego… Come le onde del mare, si limitavano a lambire la riva».
È Dale Furutani stesso a soddisfare alcune nostre curiosità.
Perché la scelta di questo periodo storico?
«Mi interessava esplorare le radici della cultura giapponese. Volevo un periodo in cui il Giappone non fosse stato particolarmente influenzato dall’Occidente. Ho scelto l’anno 1603 con grande cura perché è un anno importante per la storia giapponese. È stato allora che la famiglia Tokugawa si è appropriata del titolo di shogun e ciò avrebbe portato a oltre due secoli di isolamento per il paese.»
Cosa lega Giappone, Hawaii, California ed Europa nel suo percorso di vita?
«Nel 1868, una barca con dieci donne e bambini approdò sull’isola di Suo Oshima, Giappone. Poi, nel 1896, i miei nonni emigrarono alle Hawaii. Io nacqui lì nel 1946 e mi trasferii a San Pedro, California, a cinque anni. Da adulto, sono stato in Giappone più di 30 volte per lavoro e ci ho pure vissuto per un massimo di tre anni. Attualmente, io e mi moglie trascorriamo un quarto dell’anno a Parigi.»
Cosa la intriga tanto della storia?
«La storia mi ha sempre affascinato, fin da bambino. Ho letto dell’antico Egitto, dell’impero romano, di guerrieri come Alessandro, Annibale, Cesare o Napoleone, della storia giapponese, inglese, americana, della rivoluzione francese e di molto altro ancora. Quando scrivo un romanzo, cerco di non fare letture di narrativa per avere una gamma di temi reali tra cui scegliere. Ovviamente, grazie ai miei gusti eclettici, mi imbatto sempre in numerosi fatti o storie che si sposano con quello che scrivo. Credo che ogni scrittore nasca come avido lettore.»
Da cosa nasce il personaggio di Matsuyama Kaze?
«È un insieme del famoso spadaccino Tsukuhara Boduken, il “santo con la spada”, e di mio zio, appassionato di arti marziali. Il suo aspetto è un po’ quello di Toshiro Mifune, non fosse per le spalle più muscolose. Io non possiedo il suo coraggio o le sue capacità, ma la visione zen del mondo di Kaze è certamente la mia. Volevo un eroe che potesse affrontare un mondo caotico aderendo a principi etici e senso dell’onore. Di eroi in questo nostro mondo attuale ne servirebbero tanti e nel 1603, in Giappone, la situazione era simile. Volevo che fosse compassionevole e dotato di un umorismo sardonico, che fosse devoto alla spada come forma d’arte e filosofia. Soprattutto, volevo un uomo che mettese in pratica le proprie convinzioni.»
Che ruolo ebbero i cristiani in quel Giappone?
«La comparsa degli occidentali in Giappone ebbe un effetto sismico. Introdussero le armi da fuoco e numerose nuove idee. L’influenza del cristianesimo fu presto oscurata dalle lotte intestine. I domenicani portoghesi e i gesuiti spagnoli entrarono in conflitto sul modo migliore di convertire i giapponesi. Quando una nave inglese approdò in Giappone, per i giapponesi fu uno shock scoprire l’esistenza di cristiani diversi, i protestanti, di cui fino a quel momento erano stati tenuti all’oscuro. Per i giapponesi era una brutta cosa che i cristiani mettessero la lealtà alla Chiesa al di sopra di quella all’imperatore o, nel loro caso, allo shogun. La persecuzione dei cristiani in Giappone peggiorò quando i giapponesi capirono che la Chiesa cristiana era stata usata come arma dagli spagnoli nella conquista delle Filippine. In quel periodo, i cristiani erano ufficialmente al bando, ma gli scambi commerciali del Giappone con il resto del mondo non potevano farne a meno. Ecco, dunque, l’ambiguità al centro di questo mio romanzo.»
Come si fondono le radici giapponesi e quelle americane?
«L’America è una spugna culturale. Assorbe le influenze degli altri e mantiene oppure modifica usanze, parole e idee che ritiene utili. Pensiamo spesso che alla radice della cultura americana ci sia la cultura inglese, ma in realtà vi si possono ritrovare anche le culture spagnola, messicana, francese, africana, caraibica e nativa. Ondate migratorie successive (italiane, irlandesi, ebree) hanno a loro volta avuto un impatto fortissimo sulla cultura americana. Per esempio, gli americani adorano la pizza anche se le loro radici etniche sono lontanissime dall’Italia! In altre parole, la cultura americana si modifica entrando in contatto con una varietà di radici diverse e fondere cultura giapponese e America non è una cosa complessa. Anzi, è difficile impedire alla cultura americana di assorbire ciò che trova utile in altre radici culturali.»
Si sente un cittadino del mondo oppure un giapponese o un americano?
«Non sono un cittadino del mondo. Al pari di molti americani, parlo correntemente una sola lingua e le esperienze che ho fatto in Europa e in Giappone mi hanno convinto che i cittadini del mondo sono poliglotti. Per mia fortuna, l’inglese è attualmente la lingua universale, così come la era il latino in secoli passati. Dunque, ho potuto viaggiare per il mondo e fare amicizie. Ma questo non scusa il fatto che io, nonostante abbia vissuto per lunghi periodi in Giappone e Francia, non sia tuttora in grado di affrontare una conversazione intelligente in un’altra lingua. Invecchiando, mi rendo conto di quanto io sia americano. Considerate la mia storia e la mia razza, di certo non sono un americano “tipico”, ma forse l’americano “tipico” non è tipico affatto.»
Diversi anni fa, lei si dichiarò un fan dei romanzi di Don Camillo? Com’è possibile?
«Don Camillo è un personaggio fantastico. Da autore, mi interessano i grandi personaggi dei romanzi e cerco di stanarli. Cerco di stanare pure grandi autori da cui apprendere qualcosa. Ecco, dunque, che tra le mie influenze figurano Mark Twain, Alexandre Dumas, Dashiell Hammett, George Orwell, Robert Louis Stevenson, Raymond Chandler, Franz Kafka e altri ancora. Mi piacciono gli scrittori dotati di uno stile riconoscibile e capaci di raccontare una bella storia con idee interessanti.»
La filosofia zen affiora costantemente nelle avventure di Matsuyama Kaze. Ma c’è un che di politico in quelle storie, come se lei gettasse dei sassolini. Oppure sono fuori strada?
«Non è affatto fuori strada. Siete voi lettori a gettare i sassolini: l’acqua si increspa, trasportando le idee che sono già dentro di voi. È un concetto molto zen, ma credo davvero che siano i lettori a dare spessore alla scrittura. Noi scrittori non possiamo fare a meno di scrivere ciò che scriviamo, ma non mi siedo mai con l’idea di attribuire significati più profondi a un’opera. Questo lo fate voi.»
La notizia dell’assassinio di Shinzo Abe è stato uno shock per il Giappone?
«Sfortunatamente, in Giappone di assassinii politici ce ne sono stati parecchi nel corso dei secoli. Quello di Abe è stato particolarmente scioccante perché si tratta di un politico che avrebbe tranquillamente potuto assumere di nuovo il ruolo di primo ministro. Abe era un conservatore e un sostenitore del riarmo del Giappone, ma credo che si possa tranquillamente dire che persino i suoi oppositori siano rimasti scioccati dalla sua uccisione.»
A proposito, come giudica la decisione del Giappone di riarmarsi a tanti anni di distanza dai disastri della Seconda guerra?
«Dalla fine del secondo conflitto, il riarmo del Giappone è sempre stato sul tavolo. Dopotutto, l’attuale costituzione pacifista è stata scritta dagli americani e imposta ai giapponesi dopo la guerra. I giapponesi sono quasi tutti coscienti della rabbia che la Cina ed entrambe le Coree nutrono nei loro confronti per le empietà commesse durante l’occupazione giapponese. Fino a oggi, il Giappone si è appoggiato agli USA per farsi proteggere, ma l’ex-presidente Trump ha mostrato quanto gli USA possano essere un partner inaffidabile, a seconda di chi è alla Casa Bianca. Il Giappone e diverse altre nazioni si stanno riarmando e la guerra in Ucraina e le azioni cinesi nel Pacifico hanno accelerato il processo. Quando vivevo in Giappone, ero molto preoccupato per la Corea del Nord. I test missilistici nordcoreani sui cieli del Giappone alimentavano tale preoccupazione. I cinesi si sono mostrati sempre più aggressivi nei confronti del Giappone, oltre che di Taiwan e di altri vicini nel Pacifico. L’unico aspetto positivo di questa situazione è che la Corea del Sud e il Giappone stanno appianando vecchi problemi per unirsi a scopo di difesa contro la Corea del Nord e la Cina. Francamente, non mi piace che nessun paese investa soldi in armamenti che si spera non vengano mai usati. Dio solo sa se quei soldi un paese può usarli per cose migliori. In Giappone restano parecchi pacifisti convinti, ma la storia recente dimostra che, se una nazione ha a cuore la propria sovranità e libertà, restano aperte poche opzioni realistiche.»