Stragi fasciste e ombre nere: perché è doveroso parlarne ancora
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Stragi fasciste e ombre nere: perché è doveroso parlarne ancora

Daniele Biacchessi, giornalista, scrittore, con il suo ultimo volume, Stragi d’Italia. Ombre nere 1969-1980 ha scelto di tornare a riflettere su un periodo

Stragi fasciste e ombre nere: perché è doveroso parlarne ancora
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15 Giugno 2023 - 18.48


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di Antonio Salvati

La violenza politica e i terrorismi italiani degli anni Settanta e Ottanta sono stati oggetto di numerosi studi. Esiste una vasta bibliografia di carattere scientifico, così come di una nutrita letteratura di taglio memorialistico e autobiografico e di un’ampia pubblicistica. Va osservato però che in questa enorme massa di studi, di testimonianze e di testi divulgativi il terrorismo di destra è stato meno studiato rispetto al suo omologo di sinistra.

Agli inizi degli anni Ottanta ebbero inizio una serie di ricerche con l’obiettivo di esaminare – anche, soprattutto, con l’apporto di alcuni magistrati che si stavano occupando di inchieste di terrorismo – i diversi aspetti del fenomeno: le vicende e le azioni dei gruppi eversivi; i percorsi individuali e collettivi, dalla militanza nell’ambiente neofascista e nel Msi all’ingresso nel settore militarizzato e nei gruppi terroristici; il ruolo e il rapporto con il Msi; la cultura politica di questi gruppi. Diverse pubblicazioni hanno ricostruito l’intera parabola del terrorismo di stampo neofascista che, pur affondando le radici politico-culturali negli anni del secondo dopoguerra, ha insanguinato l’Italia a partire dal 1969, l’anno della strage di piazza Fontana, fino ai primi anni Ottanta.

Daniele Biacchessi, giornalista, scrittore, con il suo ultimo volume, Stragi d’Italia. Ombre nere 1969-1980 (Jaka Book 2023, pp. 272 € 18), ha scelto di tornare a riflettere su un periodo – quello degli anni settanta – assai difficile della nostra storia repubblicana, segnato da una guerra a bassa intensità in cui violenza e stragi sono state usate come armi di ricatto politico e caratterizzato da instabilità politica, da depistaggi, tentativi di colpi di stato e collusione tra Stato e destra eversiva.

Perché tornare oggi su questi fatti? Perché oggi – spiega l’autore – «ci sono sentenze e verità che prima non avevamo, molte risposte sono arrivate dai processi. Parte delle ombre, seppure ancora in misura limitata, sono state schiarite, hanno un nome, una provenienza. Esistono documenti che in maniera inconfutabile mostrano il ruolo svolto nella strategia della tensione dallo Stato, dalla massoneria, da gruppi eversivi di destra e da molti esponenti del Msi. La politica deve avere il coraggio di guardare al futuro e di cancellare le ombre che si allungano sulla storia del Paese. E in occasione degli anniversari delle stragi occuparsi della verità, non delle polemiche ideologiche cercando una riappacificazione che non sta in piedi». Pertanto, l’autore ha voluto «mettere in ordine lo stato delle inchieste, dei processi, il senso dei fatti». Vent’anni dopo l’edizione di Ombre nere. Il terrorismo di destra da Piazza Fontana alla bomba al Manifesto (Mursia, 2002), Biacchessi riporta «nuove prove e indizi, le increspature dello Stato, i depistaggi dei servizi segreti, i fragorosi silenzi degli apparati, gli intrighi di Palazzo, le compromissioni delle istituzioni, le intromissioni di al- tri Stati stranieri, le vergognose assoluzioni». Stragi d’Italia coglie sfumature e particolari dimenticati, evidenzia incongruenze, smussa gli angoli delle menzogne, e porta il peso del passato fino ad oggi.

C’è ancora molto bisogno di riflettere, approfondire, conoscere le stragi, i depistaggi, i delitti politici degli anni Sessanta-Ottanta e il contesto internazionale in cui questi fatti sono avvenuti. Comprendere anche come tali fatti – che ci appaiono molto lontani – si siano depositati nella memoria, territorio sia della necessità intima e privata del ricordo e del lutto, sia della commemorazione pubblica. Un territorio, come sappiamo, spesso a forte rischio di strumentalizzazione retorica e politica.

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È estremamente difficile – gli storici di professione lo sanno benissimo – affrontare dal punto di vista storico questa serie di eventi tra stragismo e terrorismo. Le fonti talvolta, non sono molte, in genere di carattere prevalentemente processuale o in forma di carte personali dei vari attori, ovvero vittime, brigatisti, terroristi, depistatori, cui si aggiungono le numerose relazioni delle commissioni parlamentari, con allegate testimonianze e riferimenti documentali. Il lavoro dello storico, orientato a ricostruire gli eventi a fini differenti da quelli del giudice o dell’esponente politico, dovrebbe essere volto sia ad analizzare ogni caso singolarmente, sia a comprendere il contesto, nazionale e sovranazionale, in cui questi si sono verificati, per capire che cosa ha attraversato l’Italia durante quell’ampio arco di tempo. Analizzare la storia delle stragi e degli attentati italiani, pertanto, è un lavoro complesso e sottile. Periodo storico che i nostri giovani nella maggior parte dei casi ignorano. Non a caso, Biacchessi ama incontrare i giovanissimi: «È bellissimo dare alle nuove generazioni, che sono curiose, gli strumenti per conoscere la storia, priva di ideologie, e per saperla interpretare. Ogni volta sono travolto dalle domande, perché cerco di far parlare le storie personali e di far scattare l’empatia».

Pur nella loro intrinseca diversità, gli eventi determinatisi in quegli anni sono accomunati da alcuni aspetti, in particolare connessi alla ricerca della verità e al mantenimento della memoria. Per portare avanti queste istanze si sono in alcuni casi costituite associazioni per raccogliere i familiari delle vittime oppure sono state le famiglie stesse a portare avanti sia la vicenda processuale, sia quella memorialistica, nel difficile equilibrio tra dimensione pubblica e privata. Oggi è parere unanime che l’attentato di Piazza Fontana costituisca il momento di apertura di un “quinquennio nero” (1969-1974) che si chiuderà con le stragi di Brescia e del treno Italicus, rispettivamente del 28 maggio e del 4 agosto 1974, con in mezzo l’abortito golpe dell’ex comandante della X Mas Valerio Junio Borghese (dicembre 1970), inquadrati nella prospettiva atlantica della guerra fredda. Il giornalista inglese Neal Ascherson, inviato in Italia per il giornale The Observer, per primo parla di «strategia della tensione», alludendo alla possibilità che gli attentati in Italia possano servire allo scopo di rafforzare il blocco politico conservatore, messo alle strette dal ciclo di lotte sociali che si sono susseguite per tutto l’anno e che sono culminate con gli scioperi per i rinnovi contrattuali nelle settimane precedenti la strage. Si tratta di evitare ogni ulteriore apertura a sinistra rispetto a quanto già è in corso nella maggioranza parlamentare che conta sull’appoggio socialista. In altri termini, in Italia intanto va in scena il più pervicace dei diversivi, oggi condiviso da molti storici: l’eversione neofascista dietro agli attentati – ormai acclarata su base giudiziaria – raggiunge l’obiettivo di “destabilizzare per stabilizzare”, legandosi anche alle malcelate tentazioni del colpo di stato che coinvolgono, in modo tutt’altro che episodico, ambienti delle forze armate, degli apparati statali e del mondo industriale. Sono gli anni in cui la democrazia parlamentare italiana, con il centro-sinistra al governo in cui la DC è alleata con i socialisti, insieme al peso elettorale del Partito Comunista e al ciclo di lotte e contestazione innescatosi con il Sessantotto, è l’eccezione nell’area dei paesi mediterranei. In Spagna e Portogallo governano le dittature di stampo fascista nate nella prima metà del secolo, la Grecia ha conosciuto il colpo di stato dei colonnelli, e pure la democratica Francia ha vissuto pericolosamente, con minacce di sollevazione dell’esercito, lo sganciamento dalla guerra algerina e l’affermazione del presidenzialismo di De Gaulle. E anche altrove – lo sguardo va inevitabilmente al Cile del 1973 – gli equilibri internazionali non permettono alcuna apertura ampia a sinistra.

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Il libro di Biacchessi rinvia all’importanza della storia e alla pluralità delle memorie storiche con le quali il XXI secolo dovrà convivere. Come scrive Alessandro Triulzi «la memoria della violenza può trasformarsi in “memoria condivisa”, anche rispetto a un passato tormentato, quando vi sia alla base la volontà politica di riconoscere l’offesa arrecata all’umanità dell’una e dell’altra parte, e quando la memoria si trasformi in diritto al mantenimento della propria identità storica e culturale […]. La memoria diventa allora strumento negoziale per ristabilire le basi di una società pluralista in siano possibili articolazioni diverse e pur non consensuali di memoria». Compito decisamente arduo. Servirà un’ulteriore riflessione sul legame fra identità e memoria storica, o quanto meno un suo ripensamento, sia a livello individuale che collettivo. La memoria è – ci insegna la psicoanalisi – una funzione dell’identità, consentendo a un soggetto di riconoscersi lo stesso nel corso del tempo, sia nel senso che l’identità è il selettore che fa privilegiare al soggetto certi ricordi piuttosto che altri. La memoria non può essere solo ciò che serve alla “buona identità” di un gruppo e i suoi interessi, ma anche il deposito di tracce che possono servire alla sua auto-critica. Sia a livello personale che collettivo, non di tutto ciò che abbiamo fatto possiamo andare fieri. Tuttavia, la capacità di non nasconderlo, e di assumersene la responsabilità, fa la differenza: permette – direbbe Jedlowski – la circolazione di un riconoscimento fra sé e gli altri che l’insistenza sulle proprie glorie o quello sui torti ricevuti non consentono. La memoria storica è collegata con il futuro in quanto le generazioni future successive possono con essa ricollegarsi e imparare dagli errori: entrambe le cose aiutano a disegnare il domani. In tal modo, la memoria ricorda futuri che si sono immaginati nel passato e serve il futuro del presente. La memoria corrisponde, quindi, ad un “tenere a mente”. Come scrive con chiarezza la psicologa Anna Maria Longoni: «la memoria non riguarda soltanto eventi passati, ma anche eventi, azioni, che si devono compiere nel futuro. Ricordarsi di compiere determinate azioni, come fare la spesa, discutere di un certo argomento durante una riunione di lavoro, trasmettere un messaggio quando s’incontra una determinata persona, è una delle componenti fondamentali della nostra giornata – lavorativa e non -, scandita dal ritmo delle “cose da fare”».

Recentemente Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e Lucio Caracciolo, esperto di geopolitica e fondatore della rivista Limes, attraverso un dialogo pubblicato da Piemme col titolo Accogliere (Piemme pp. 112, 2023, euro 17,90), hanno ragionato sul serio rischio di fare a meno della storia universale ed individuale. Il rifiuto della storia è una forma del rifiuto dell’altro, e viceversa. È una forma di violenza morale – sostiene Caracciolo – talvolta più dolorosa della violenza fisica. «Non si vuole cogliere – accogliere – che non siamo meteore precipitate dal cosmo ma siamo, anche dal punto di vista biologico, figli di una storia. Piena di conflitti, di contraddizioni, ma appunto una storia. Variamente interpretabile. Se l’aboliamo, su che cosa fonderanno i nostri figli, nipoti e pronipoti la loro identità? Su una eterna ora zero? Pretendiamo noi di fissarne una come se non ci fosse stato qualcosa prima? E se questo è vero, se possiamo cancellare il passato, perché dobbiamo accogliere qualcun altro, qualcuno di “nuovo”? Non c’è motivo: siamo autosufficienti. Siamo autosufficienti rispetto al tempo ma anche rispetto allo spazio: “Questo è da sempre e per sempre il mio recinto e guai a chi si avvicina!”».

Riccardi sottolinea quanto la cultura dell’io – che pervade il nostro tempo – negando la storia nega il futuro, «perché si ha un allargamento immaginario del presente. Anche a livello esistenziale, donne e uomini imbellettati, giovanilisti, che non accettano di dire: “Sono vecchio”. Non si staccano dal potere e non pensano a chi lasciare il proprio presente. Non guardano ai loro eredi. Alla fine la storia non esiste e il futuro si allontana: resta soltanto un grande presente, che è il mondo dell’io». È la negazione della storia: papa Francesco ne parla nell’enciclica Fratelli tutti come un segno della crisi culturale del nostro tempo. «Si favorisce anche una perdita del senso della storia che provoca ulteriore disgregazione. Si avverte la penetrazione culturale di una sorta di “decostruzionismo”, per cui la libertà umana pretende di costruire tutto a partire da zero. Restano in piedi unicamente il bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di molte forme di individualismo senza contenuti. La perdita del senso della storia è uno dei drammi, per Riccardi, della nostra cultura occidentale. Molti di noi ricordano quanto nei decenni passati la storia nazionale era il cuore delle analisi degli intellettuali ed era connessa alla politica. Oggi la società dell’io «porta all’accoglienza del passato, divenendo immemore sradicata, al rifiuto del futuro». Caracciolo e Riccardi concordano che accoglierci, accogliere «non è un’esperienza intellettuale, ma una prossimità che rigenera i sentimenti. Accogliere è invitare a condividere la nostra storia e il nostro futuro. Accogliere convinti che si possa lavorare insieme. Significa dare fiducia lavorando ed abitando insieme».

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