"Sii te stesso a modo mio": un libro che spiega vicende come quella di Casalpalocco
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"Sii te stesso a modo mio": un libro che spiega vicende come quella di Casalpalocco

Siamo approdati a una società che non si limita più a chiedere ai ragazzi di essere all’altezza delle nostre aspettative, ma li costringe a seguire un mandato paradossale

"Sii te stesso a modo mio": un libro che spiega vicende come quella di Casalpalocco
Matteo Lancini, psicoterapeuta
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18 Giugno 2023 - 18.04


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di Antonio Salvati

Oggi viviamo, abitiamo in una società onlife, come si suol dire. Sono decenni che noi adulti l’abbiamo inventata e, soprattutto, alimentata. Eppure, non possiamo continuare a non accettare questo dato di fatto, quasi si trattasse di un’eventualità incontrovertibile: non esiste più distinzione tra vita reale e vita virtuale, tra esperienza reale ed esperienza virtuale. Internet è come la vita, anzi è la vita, in cui succede e può succedere di tutto. Da anni gli esperti – come Matteo Lancini – invitano ad interrogarsi su come sia stato possibile che l’essere umano facesse questa fine. Noi oggi viviamo nell’età della tecnica che non è più, come si è soliti pensare, uno strumento nelle mani dell’uomo, perché, per effetto della sua espansione, è diventata il nostro ambiente, riducendo l’uomo a funzionario di apparati tecnici e fruitore di strumenti tecnici, non perché li desideriamo, ma perché siamo obbligati a desiderarli. Oggi, infatti, «nessuno di noi è libero – spiega Umberto Galimberti nel suo volume Il libro delle emozioni (Feltrinelli 2021, pp. 192 € 18) – di avere o non avere un computer o un cellulare perché, se le relazioni sociali passano attraverso i computer e i cellulari, non avere questi strumenti equivale a un’esclusione sociale. A differenza delle epoche pre-tecnologiche, la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità. La tecnica funziona, e il suo funzionamento è regolato da una razionalità semplice e rigorosissima: ottenere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi. Questa razionalità è condivisa anche dall’economia, la quale però ha ancora una passione umana, che è la passione per il denaro, da cui la tecnica è del tutto esonerata. Siccome la tecnica è diventata il nostro ambiente, se non vogliamo incorrere nell’emarginazione sociale non possiamo sottrarci alla sua razionalità. Ma tutti noi abbiamo anche una vita emotiva che comprende passioni, affetti, sentimenti, immaginazioni, sogni che, dal punto di vista della razionalità tecnica, sono considerati elementi di disturbo che intralciano la rigorosità delle procedure e mettono a rischio la funzionalità, l’efficienza e la produttività, che sono i valori della tecnica».

È necessaria una riflessione, nonché una maggiore intelligenza politica e culturale, su come aiutare e sostenere le nuove generazioni – nativi digitali – a vivere in questo presente, a immaginarsi un futuro, a individuare e allenare i propri talenti, a realizzare sé stessi e a dare forma al proprio vero Sé, nella società onlife. L’accelerazione che caratterizza la contemporaneità ha amplificato il divario generazionale tra i nuovi adolescenti e gli adulti di riferimento.

Nel suo ultimo volume Lancini, Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta (Raffaello Cortina Editore 2023, pp. 208 € 14), significativamente afferma che siamo approdati a una società che non si limita più a chiedere ai ragazzi di essere all’altezza delle nostre aspettative, ma li costringe – come recita efficacemente il titolo del volume – a seguire un mandato paradossale: “Sii te stesso, ma a modo mio”. Questa trasformazione, che per l’autore segna il «passaggio al paradigma postnarcisistico, è in atto da tempo, ma è stata la pandemia ad aver smascherato il rischio di un’inversione dei ruoli: mentre i ragazzi si adattano alle esigenze degli adulti pur di farli sentire tali, questi ultimi sono alle prese con una crescente fragilità. Come riuscire allora a sostenere gli adolescenti nella realizzazione di sé?».

Innanzitutto, occorre considerare un problema di non poco conto: che se da un lato la razionalità della tecnica – avverte Galimberti – obbliga a una sospensione della propria vita emotiva, dall’altro ergere il proprio sentimento a unica legge della propria condotta priva l’individuo di quelle relazioni sociali di cui la vita emotiva ha bisogno per esprimersi. Ma vediamoli da vicino questi due scenari: quello della razionalità della tecnica, che esige la rimozione del nostro sentimento, e quello dell’assunzione del proprio sentimento come unico criterio di giudizio sottratto a ogni verifica.

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In realtà, le odierne tecniche di comunicazione, che ci illudono di aiutarci sensibilmente nella divulgazione non solo delle informazioni ma anche delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti su scala molto più vasta di un tempo, «a un esame più approfondito dimostrano di impedire la circolazione delle nostre idee e dei nostri sentimenti, non tanto perché il controllo viene esercitato da un pugno di grandi organizzazioni (questo già lo sappiamo), ma perché quando, per effetto dell’esposizione della nostra interiorità, nessuno ha più segreti per nessuno, e per tutti è identica l’esperienza del mondo e persino le parole per descriverlo, ciascuno ascolta quello che da sé potrebbe tranquillamente dire, e dice come sua opinione ciò che al pari di tutti ha ascoltato». In questo monologo collettivo, abbiamo l’impressione (o l’illusione) – spiega Galimberti – «di una maggiore libertà dovuta alla quantità dei mezzi di comunicazione a disposizione. In realtà ne abbiamo molta meno, perché nessuno dispone di altri contenuti da comunicare che non siano quelli a tutti comuni. Impossibilitati a distinguere tra realtà e apparenza perché, per effetto della mediazione tecnica, il mondo è diventato “rappresentazione”, ciascuno forma il proprio mondo a partire dalle immagini del mondo di cui tutti siamo ugualmente e inesorabilmente riforniti, per cui, anche con il più piccolo accenno di introversione, ciascuno trova in ciò che ha di più intimo nulla di più di quanto vede scorrere sugli schermi di casa propria». Onestamente molti adulti non sono più capaci di abitare il mondo e di garantirsi le relazioni affettive senza quel tramite che è il cellulare, il computer portatile o il tablet, in nulla dissimili dall’orsacchiotto o dal giocattolo preferito dal bambino. Le nuove tecnologie, di cui andiamo tanto fieri, portano a una progressiva infantilizzazione di tutti noi e in generale della società in cui viviamo?

Galimberti invita sorvegliare il futuro dei nativi digitali, che ancora non si rendono conto che i mezzi di comunicazione che quotidianamente frequentano non sono un “mezzo” che possono impiegare a loro piacimento, ma sono un “mondo” che, nel momento stesso in cui li ospita, condiziona il loro modo di pensare e di sentire. Ripartendo dalla formazione dell’identità e dall’educazione delle emozioni, in un tempo in cui la marginalizzazione della realtà “fisica” in favore di quella “virtuale” e la riduzione drastica dei processi di socializzazione, con tutte le conseguenze psicologiche che questi inconvenienti comportano, per effetto dell’isolamento indotto dal rapporto del singolo individuo con il suo computer. L’identità non la si possiede per il solo fatto di essere al mondo, o per il fatto che ogni volta che parliamo diciamo “Io”. L’identità si costruisce a partire dal riconoscimento che riceviamo dagli altri. In questo senso, per Galimberti, «l’identità è un dono sociale. Se il riconoscimento manca, come manca sempre a chi va male a scuola, l’identità, che è un bisogno assoluto per ciascuno di noi, si costruisce altrove, in tutti quei luoghi, scuola esclusa, dove è possibile raccattare riconoscimenti. Se poi fuori dalla scuola resta solo la strada, sarà la strada a fornire quei riconoscimenti ai livelli in cui una strada li può concedere. Sesso e droga cominciano ad apparire come forme esasperate del bisogno di riconoscimento, perché forme più adeguate non sono state offerte».

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Se le pulsioni sono naturali, se le emozioni sono in parte naturali e in parte orientate dalle differenti culture e dall’educazione, i sentimenti non li abbiamo per natura, ma per cultura, spiega Galimberti. I sentimenti si imparano. E tutte le società, dalle più antiche a quelle di oggi, non si sono mai sottratte a questo compito. Fin dall’origine dei tempi, infatti, «le prime comunità, attraverso narrazioni, miti e riti, insegnavano la differenza tra il puro e l’impuro, il sacro e il profano con cui circoscrivere la sfera del bene e del male, creando schemi d’ordine capaci di orientare i membri della comunità nei propri comportamenti. All’impurità era connesso il contagio, con conseguente reazione di terrore e procedure di isolamento, da cui si usciva con particolari pratiche rituali, magiche e scarificali». Oggi, per apprendere i sentimenti, non possiamo più ricorrere ai miti, «però abbiamo quel grandioso repertorio costituito dalla letteratura che ci insegna che cos’è l’amore in tutte le sue declinazioni, che cos’è il dolore in tutte le sue manifestazioni, che cosa sono la gioia, la tristezza, l’entusiasmo, la noia, la tragedia, la speranza, l’illusione, la malinconia, l’esaltazione. Educati dalle pagine letterarie, disponiamo di mappe mentali che, in presenza del dolore, ad esempio, ci indicano, se non le vie d’uscita, le modalità per reggerlo. E questo è forse il senso di quella neppur troppo enigmatica espressione di Eschilo che dice: “Solo il sapere ha potenza sul dolore”».

Solitamente ai figli e agli studenti vengono fatte richieste, non offerte. Le polemiche sull’intelligenza artificiale che avanza, sulle nuove chat di intelligenza artificiale che si diffondono su Internet rischiano di riproporre il consueto schema, già visto e rivisto. Queste chat si vietano perché il divieto è comodo, rassicurante e rende popolari.

Oggi con privazioni, limiti e divieti, sostenuti dalla favoletta che i “no”, soprattutto quelli che fanno comodo a noi – spiega Lancini – e «placano le nostre ansie e angosce di ruolo, servono a crescere, ci vantiamo di educare, mentre in realtà chiudiamo gli occhi, non vogliamo vedere. I ragazzi e le ragazze, invece, hanno un enorme bisogno di essere visti per quello che sono e per quelle che sono le loro necessità evolutive all’interno del contesto che abbiamo creato». L’intelligenza artificiale, come ormai si legge da più parti, può manipolare la mente, l’opinione pubblica e porta con sé evidenti problemi di privacy e occupazionali. Ma davvero pensiamo che l’intervento adulto davanti a tale complessità possa limitarsi al controllo dell’utilizzo che ne fanno e ne faranno i giovani a scuola, a casa e in ogni luogo che frequentano e che frequenteranno, dato che ormai viviamo in un mondo iperconnesso? Del resto, nessuno è mai riuscito a limitare davvero il consumo di droghe attraverso il controllo, figuriamoci quello di Internet. Lancini ripete da tempo che si deve educare, fare prevenzione, «non solo informare ma responsabilizzare e farsi carico del funzionamento psichico e affettivo delle nuove generazioni; bisognerebbe fare gli adulti. Una competenza e una serietà adulta che dovrebbero governare anche le attuali e future campagne di sensibilizzazione e prevenzione degli incidenti stradali.

Da decenni all’ennesimo fine settimana, caratterizzato da terribili incidenti stradali mortali – o fatti come quelli accaduti recentemente a Casalpalocco – ci poniamo la domanda: perché i ragazzi sono così irresponsabili e non pensano alle conseguenze tragiche dei loro comportamenti? Si ritiene che alla base di questi comportamenti ci siano l’onnipotenza e il mancato riconoscimento delle conseguenze delle proprie azioni. In realtà, «ci troviamo quasi sempre di fronte a condotte autolesive e autodistruttive, le cui ragioni profonde sono da ricercare in un’assenza di prospettive di vita attuali e future, che spinge ad abbassare la soglia dei limiti necessari a garantire la propria e altrui sopravvivenza. Sono condotte parasuicidarie e, a volte, veri e propri suicidi mascherati. Sono comportamenti a rischio, drammatici segnali di sofferenza, generati dal proprio stato mentale e affettivo».

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Il compito dell’adulto è quello d’informare ma – sottolinea Lancini – anche quello di promuovere occasioni di elaborazione di tematiche drammatiche e difficili anche da pensare, ma attualmente presenti nella mente di molti adolescenti e giovani adulti. Prevale, ancora una volta, la tendenza a licenziare il dolore. Viviamo in quella che da tempo è definita la società algofobica, intesa come metafora di una realtà dove si tende a rimuovere qualsiasi forma di sofferenza. Una società «dove gli adulti non riconoscono l’aspetto ineludibile e fondativo del dolore umano, dove si tende a negarne la portata, fino a sostenere che gli incidenti stradali giovanili dipendano dal fatto che i ragazzi e le ragazze non conoscono le norme del codice stradale, non sanno che la guida sotto effetto di sostanze alteranti è molto meno attenta e precisa, non sono in grado di controllare le proprie azioni a seguito di un’onnipotenza cerebrale, ulteriormente instupidita da social e videogiochi».

Serve avere coraggio, di contrastare le nostre fragilità e di andare alla riscossa. Purtroppo, più ragazzi e ragazze di quanto ci piaccia pensare non hanno molto da perdere, sentono di non avere un futuro e sentono battere dentro di loro in modo sempre più flebile il sentimento della speranza; per questo guidano senza limiti, non mangiano o mangiano all’eccesso, si ritirano in casa, si tagliano e vogliono morire, altro che dipendenze e devianze da normare con divieti. La recente tragedia di Roma (che ha evidenziato il fenomeno delle challenge online, come vengono definiti questi spettacoli digitali, spesso di natura automobilistica) è la punta emergente dell’iceberg e chiama in causa i figli insieme ai padri.

Nei giorni scorsi sulle pagine del quotidiano Avvenire Eraldo Affinati ha sostenuto che rinunciare alle nuove tecnologie sarebbe impossibile e sbagliato. Occorre, invece, «ripristinare le gerarchie di valore all’interno della grande Rete. Orientare i percorsi senza occultare il male: soltanto così potremo sperare di evitarlo. Dimostrare coi fatti la differenza sostanziale fra informazione e conoscenza. Aprire gli occhi dei giovani, spingendoli a uscire dalle loro cerchie fatate. Dovremmo avvicinarli al fuoco anche lasciando che talvolta si brucino le dita, invece di indurli a credere di poter sempre farla franca. Incarnare, noi adulti, il limite che loro dovrebbero rispettare». Marco Impagliazzo della comunità di Sant’Egidio ha usato la metafora del tunnel in cui spesso ci sembra stare, ma in fondo al quale c’è una luce, che è il “noi”, e ha invitato «i giovani di non andare avanti da soli, ma insieme. Inoltre li esorto a prendere la parola, a non essere timidi, a esprimere i loro bisogni e necessità, anche i loro sogni, un po’ come avveniva nel ’68 con “la presa della parola”. Poi però, mi rivolgo anche agli adulti dicendo loro: ascoltiamoli! I giovani hanno tantissimo da dire, e le loro idee non vanno schiacciate dal mondo degli adulti».

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