di Azzurra Arlotto
Pochi giorni fa, sul Corriere della sera, è stata pubblicata un’intervista allo psichiatra Paolo Crepet, uno degli analisti più attenti dello stato della condizione giovanile nel nostro Paese. Sono stati tanti i temi trattati legati alla tecnologia, ai giovani e ai loro genitori ma uno in particolare ha colpito la nostra attenzione e ci ha portati a riflettere: l’educazione ai social media.
Secondo Crepet i ragazzi d’oggi andrebbero educati ai codici e alle norme che regolano il mondo delle comunicazioni digitali, nel quale sono ormai immersi quotidianamente, che spesso vengono dati per scontati.
“So per certo che bisogna far venire ai ragazzi la voglia di fare a meno di un uso parossistico del cellulare. -spiega Paolo Crepet al Corriere della sera- Bisogna inventare altri interessi, il bisogno di relazione e di scambio. Possibile che la tradizione educativa italiana (Montessori, Lodi, Don Milani) non produca una cultura del desiderio di conoscenza e di profondità? Io ai ragazzi di quell’età non darei il cellulare, farei insieme a loro le ricerche per aiutarli a decifrare i codici della comunicazione digitale”.
La questione è tanto interessante quanto importante per le nuove generazioni e non.
Viene da chiedersi se il sistema scolastico italiano sia pronto ad una sfida di tale portata e soprattutto se ne valga la pena. Bisognerebbe in qualche modo rivoluzionarlo, introducendo corsi legati ai social media che non puntino solo alle conoscenze prettamente tecnologiche ma che, invece, affrontino i problemi del saper comunicare in maniera adeguata nel digitale. Per farlo andrebbero per prima cosa formate persone adatte all’insegnamento di queste tematiche, persone che siano professionisti nel campo della comunicazione e dei social media e non insegnanti già formati in altri ambiti di studio con una mera infarinatura generale sul tema.
Ne abbiamo discusso con Simone Giusti, ricercatore senior di Letteratura italiana che insegna Didattica della letteratura italiana nel corso di laurea magistrale in Lettere Moderne dell’Università di Siena, conducendo ricerche sul campo e svolgendo attività di formazione professionale dei docenti e di consulenza per agenzie formative, enti di ricerca, scuole, università e case editrici può dunque avere una visione completa sui vari protagonisti coinvolti.
Negli ultimi anni si è tanto parlato di nativi digitali, lei ritiene possibile che i bambini e i ragazzi di oggi possano usare i social media nel modo corretto semplicemente attraverso “l’imparare facendo”?
L’espressione “nativi digitali” ha avuto un grande successo, e ci è stata utile a evidenziare soprattutto la distanza tra chi si è trovato a crescere in un ambiente permeato dalle tecnologie digitali e chi invece ha avuto occasione di esperire gradualmente ogni singolo passaggio dell’evoluzione tecnologica che ha portato dalla macchina da scrivere allo smartphone. Riguardo alla possibilità di imparare i social media semplicemente utilizzandoli, è ovvio che ciascuno – proprio come accade per la madrelingua – può imparare dall’esperienza. Ciò significa però che il livello di competenza e di consapevolezza di ciascuno dipende dall’ambiente in cui vive, dalle tecnologie di cui dispone, dagli stimoli e dalle istruzioni che riceve e dalle persone con cui ha occasione di condividere l’esperienza. La scuola dovrebbe avere il compito di render la società più equa e di favorire lo sviluppo personale di ciascuno indipendentemente dall’ambiente in cui vive e dalla cultura di partenza, per cui direi che non è possibile lasciare al caso un settore così strategico del sapere. Occorre che la scuola aiuti le persone a dare un senso e un valore a ciò che hanno appreso dall’esperienza, e che contribuisca alla crescita di ogni nuovo cittadino e cittadina anche nell’ambito delle competenze digitali.
Porre limiti di età per l’accesso alle varie piattaforme social ha senso dal suo punto di vista?
I limiti già ci sono e credo proprio che vadano rispettati, soprattutto nella scuola pubblica, ma anche in ambito familiare. Qui entra in gioco la preparazione e l’educazione degli adulti, insegnanti o genitori che siano: occorre conoscere le regole e farle rispettare, mostrando ai più giovani un atteggiamento allo stesso legalitario e scientifico, interessato alle regole e capace di mettere in dubbio abitudini e luoghi comuni. Se porre dei limiti significa avere un atteggiamento autoritario, allora non sono d’accordo, ma se significa mettersi accanto ai più piccoli per capire di volta in volta i pro e i contro delle scelte e studiando caso per caso cosa sia giù opportuno fare, ben vengano i “limiti”.
Cosa ne pensa dell’introduzione nel sistema scolastico di un corso realizzato da esperti sull’uso corretto dei social?
Io sono fermamente contrario a introdurre un insegnamento per ogni nuovo problema o per ogni nuova opportunità. D’altronde il nostro sistema scolastico ha già recepito a livello normativo l’insegnamento dei social media. Nel profilo in uscita al termine del primo ciclo di istruzione, già dal 2012 è scritto che ogni studente «Ha buone competenze digitali, usa con consapevolezza le tecnologie della comunicazione per ricercare e analizzare dati ed informazioni, per distinguere informazioni attendibili da quelle che necessitano di approfondimento, di controllo e di verifica e per interagire con soggetti diversi nel mondo». E sa chi dovrebbe insegnarlo? Tutti gli insegnanti di tutte le discipline, ciascuno per la sua parte. L’insegnante di italiano, per esempio, di cui io mi occupo nell’ambito del mio insegnamento di Didattica della letteratura italiana, dovrebbe avere un ruolo importante. La vera domanda dovrebbe essere: perché non lo facciamo nonostante sia prescritto dalla legge?
Chi, secondo lei, sarebbe la figura più adatta? Un esperto in scienze della comunicazione, un educatore oppure un esperto di tecnologia?
Io ritengo che i laureati e le laureate di oggi, insegnanti di domani, dovrebbero farsi carico di questo problema. In ogni settore, in ogni disciplina. Perché nessuna disciplina – neanche gli studi letterari – è estranea alle tecnologie digitali, o viene studiata e praticata da persone che vivono in un mondo pre-digitale.
A tal proposito, pensa possa essere giusto “rivoluzionare” il corso di laurea in scienze della comunicazione verso questo obiettivo dando ulteriori sbocchi professionali ai neolaureati che spesso hanno difficoltà a trovare un’occupazione?
La domanda mi spiazza. Per rispondere dovrei studiare approfonditamente il corso. Ma in linea di massima direi di no, almeno per quel che riguarda l’area educativa, dove servono persone dotate sia di una solida preparazione disciplinare sia di una altrettanto solida preparazione pedagogico-didattica. Personalmente sarei favorevole a una maggiore contaminazione tra le aree disciplinari, e ritengo utile che molti saperi presenti nei corsi di laurea in scienze della comunicazione siano affrontati anche dai letterati, per esempio, e viceversa. Ma non sono favorevole alla continua rincorsa della specializzazione, né tantomeno vedo di buon occhio la moltiplicazione dei settori disciplinari nell’università e nella scuola.