Che c'entra Cristoforo Colombo con il genocidio dei nativi americani?
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Che c'entra Cristoforo Colombo con il genocidio dei nativi americani?

La tragedia dei cosiddetti pellerossa non sta nell’approdo a San Salvador del 14 ottobre 1492, bensì nella conquista del West. Davvero si può cancellare la memoria, anche la più controversa, eliminando una data?

Che c'entra Cristoforo Colombo con il genocidio dei nativi americani?
La statua di Cristoforo Colombo deturpata a Houston nel Texas
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Enzo Verrengia Modifica articolo

3 Agosto 2023 - 09.07


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Si può o addirittura si deve cancellare la Storia come se fosse riducibile ad una scritta, nel caso specifico “Mussolini Dux” sull’obelisco del Foro Italico. La questione sollevata a suo tempo dall’onorevole Emanuele Fiano s’intreccia con quanto avviene negli Stati Uniti.

L’abbattimento della statua del Generale Lee o la decapitazione del busto di Cristoforo Colombo segnano una presa di posizione nel presente. Sennonché, il passato resta. A meno di non volerne ricavare una manipolazione e ricrearlo in una specie di ucronia. O peggio, riscriverlo come nell’incubo di George Orwell. Il protagonista di 1984, Winston Smith, ha il compito di aggiornare la Storia e la cronaca secondo le direttive sempre mutevoli dell’oligarchia dittatoriale che controlla tutti.

A Los Angeles hanno cancellato il Columbus Day con una delibera del consiglio municipale votata quasi all’unanimità: quattordici voti favorevoli e uno contrario. Va in porto la mozione propugnata nel 2015 dal consigliere comunale Mitch O’Farrell, discendente della tribù indiana Wyandot. Secondo lui la commenorazione del navigatore genovese equivaleva all’apologia di un genocidio, quello dei nativi americani. Un atto simile era già avvenuto ad Albuquerque, Seattle e Denver. Si tratta di «ristabilire la giustizia».

Sì, perché a rigore di fatti Colombo NON ha scoperto l’America Settentrionale bensì quella Centrale, aprendo la via alla colonizzazione spagnola del continente latino. Gli sterminatori degli indiani furono invece i discendenti dei Pilgrim Fathers, partiti dallo scoglio di Pymouth sulla “Mayflower”, e le diverse ondate di olandesi che acquistarono l’isola di Manhattan dagli indigeni Algonquini e la ribattezzarono Nuova Amsterdam. Qui va ripescata la figura di Peter Stuyvesant, fondamentale nel processo di “riscrittura” della costa occidentale statunitense. Il tutto rievocato e concentrato nella Festa del Ringraziamento, il Thanksgiving, che ricorre il quarto giovedì di novembre e nessuno ha dato segno di voler abolire.

La tragedia dei pellerossa non sta nell’approdo di Colombo a San Salvador il 14 ottobre 1492, bensì nella conquista del West. La frontiera americana attraversa la Storia e la geografia, ma segna soprattutto il carattere della stirpe anglofona. Quella che con forte impeto espansionista travolse le tribù indiane, espropriandole di territori, di nutrimento, di dignità e di ogni altra scelta al di fuori della decadenza. E lo fece con le armi, innescando la spirale degli scontri a fuoco che proseguono ininterrotti anche oggi. La costituzione degli Stati Uniti, peraltro, garantisce il diritto all’autodifesa armata, nello spirito della frontiera.

La quale venne cartografata agli inizi dell’Ottocento con la spedizione di Lewis e Clark, che aprì le vie al commercio di pellicce nelle zone più impervie dell’entroterra. Ne furono protagonisti individui rotti a qualsiasi esperienza che li traesse d’impaccio da accuse per omicidio, debiti e truffe, oppure semplicemente mossi da febbre di avventura. Uno di loro si chiamava Hugh Glass. Veniva da Filadelfia e aveva fatto l’ufficiale di marina, il pirata giocoforza e il fuggiasco. Arruolato dalla Rocky Mountain Fur Company, la principale compagnia di pellami, passò agli ordini dello sfortunato, sventurato e inadeguato capitano Andrew Henry. Con lui e una compagnia assortita di buontemponi, duri e incapaci, più un autentico tagliagole, Glass affrontò le impervie regioni che costeggiavano il fiume Grand, fino al Missouri.

Sennonché dopo l’attacco di un’orsa, sfregiato e quasi mutilato, dovette rimettersi alla pietà dei compagni. Il capitano Henry, credendolo sul punto di morire, lo affidò a un ragazzo, Bridger, e al tagliagole, Fitzgerald. I due avrebbero dovuto vegliare l’agonia di Glass e poi dargli una decorosa sepoltura che ne sottraesse le spoglie allo scempio degli animali. Fitzgerald, però, convinse Bridger ad abbandonare il ferito e a impadronirsi delle sue proprietà, compreso l’ottimo fucile Anstadt.

La vicenda ha fornito notoriamente la trama del romanzo Revenant, di Michael Punke, la cui versione cinematografica ha guadagnato l’Oscar a Leonardo Di Caprio.

Dal 1994 gli indiani hanno presentato la richiesta d’indennizzo per una somma di 150 miliardi di dollari, stando al computo degli arretrati. Senza risultati, sia sotto l’amministrazione di Bill Clinton che quelle successive. La paladina del maxiprocesso è Elouise Cobell, fondatrice nel 1987 della prima banca nazionale di una riserva indiana.

Tutto già vissuto dai tedeschi all’indomani della riunificazione. Il dibattito sorto sulla destinazione di quanto rimaneva dei luoghi deputati del Terzo Reich, compreso il Führerbunker già attaccato più volte dalle ruspe, poneva il problema della memoria storica in termini architettonici. Il Terzo Reich è per i tedeschi un’eredità ingombrante non solo sul piano etico. La Berlino che nelle aspirazioni di Hitler doveva chiamarsi Germania, e levarsi dalle pianure mitteleuropee come un titanico agglomerato di marmo modellato dalle direttive di Albert Speer, è una sorta di blueprint virtuale, in sovrapposizione alla metropoli esposta agli occhi del mondo. Specie dopo l’uscita nel 1992 del romanzo Fatherland, di Robert Harris, che ipotizzava la vittoria del nazismo nella seconda guerra mondiale.

Per gli Stati Uniti è peggio. Fin dagli anni ’80 il critico d’arte Robert Hughes ne avvertiva i paradossi e le derive estreme del politicamente corretto. Lui che pure è originario di un continente colonizzato dagli occidentali, l’Australia. Nel suo classico La società del piagnisteo analizza il controsenso dell’assolutismo nella retrospettiva di qualsiasi sorta: «L’interpretazione della Storia non è mai statica. Rivedere, per noi storici è un obbligo». Ma per lo stesso principio, non si può santificare il complesso etnico dei nativi: «In fatto di uccisioni, torture, materialismo, ecocidio, schiavizzazione ed egemonia sessista i popoli delle Americhe, per secoli e probabilmente per millenni, se l’erano cavata abbastanza bene».

Hughes non tesse l’elogio del WASP, White Anglo Saxon Protestant, anzi, ne mette alla berlina i complessi di colpa che lo spingono a rinnegare se stesso per una visione idilliaca del “buon selvaggio” smentita dai fatti. Quanto al Generale Lee non fu peggio dei nordisti che massacrarono spietatamente battaglioni sudisti e poi calarono come carpetbaggers, cavallerizzi con tappeti avvolti dietro la sella, a invadere le ricche proprietà di un’America raffinata ed europea di gran lunga più umana delle metropoli industriali del nord, dove valeva già la frase di lancio del film di Martin Scorsese Gangs of New York: «L’America è nata nelle strade».

Da sempre l’umanità vive tra le proprie rovine. L’archeologia è un flusso ininterrotto di conoscenza che scorre all’indietro nel tempo e nello spazio raccordando il presente al passato e creando la continuità della Storia. Ma cosa accade se quest’ultima è l’incubo da cui cercare di risvegliarsi, secondo l’espressione di Joyce nell’Ulisse?

Tornando a statue, monumenti e cippi, viene in mente un paragone scomodissimo. Quello con i Buddha di Bamiyan distrutti dai talebani nel 2001 perché considerati in contrasto con l’impalcatura teologica dell’Islam.

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