di Alessia de Antoniis
La maschera è il fil rouge che lega gli eventi del Ginesio Fest 2023, una dei festival teatrali più vivaci tra le rassegne estive, che anima le strade del borgo marchigiano di San Ginesio dal 18 al 25 agosto.
Maschere sono quelle che Giuliana Musso ha portato in scena il 18 e il 20 agosto con due drammaturgie originali. “La scimmia”, riscrittura di Relazione per un’accademia di Franz Kafka e “Mio eroe”, ispirata alla biografia di alcuni dei 53 militari italiani caduti in Afghanistan durante la missione ISAF (2001- 2014).
Due monologhi, scenografie essenziali, un impegnativo lavoro drammaturgico alle spalle, dove le maschere manifestano emozioni, pensieri, esperienze.
“La scimmia”. Sguardo allucinato, volto scavato, in bilico sui piedi storti, le ginocchia incrociate, il sedere sporgente, l’incalzare dinoccolato. Per un’ora Giuliana Musso vive in una maschera, quella della scimmia che indossa un’altra maschera, quella di un uomo.
L’attrice attinge sapientemente agli strumenti acquisiti negli anni di formazione attraverso il teatro di improvvisazione, il cabaret, il terzo teatro, la commedia dell’arte.
Grazie all’uso calibrato di gesti, padroneggiando abilmente il corpo come un mimo, Giuliana Musso porta in scena la natura dell‘essere umano grazie a un caleidoscopio gestuale che oscilla tra il tragico e il comico. Non imitando, ma dando vita, con rigore e tecnica, a quel mondo burlesco e simbolico dove il corpo è solo uno strumento.
“La scimmia” è il punto di incontro tra Kafka e Chaplin. Un animale vestito di perbenismo borghese, con gli stessi abiti di Charlot, tenero vagabondo emarginato che lotta per sopravvivere in un mondo dal quale si sente avulso. Un animale che, grazie a una maschera, conquista in teatro una libera alternativa alla gabbia dello zoo. Nata libera, unica sopravvissuta a una battuta di caccia, catturata, ingabbiata e torturata, sceglie l’adattamento: imita gli umani che l’hanno catturata, imparando ad agire e a ragionare come loro.
La scimmia come antitesi a Cartesio: non cogito ergo sum, ma sento quindi penso. Una critica al patriarcato e all’appiattimento della cultura non come campo di ricerca ma come oppio dei popoli.
“Mio eroe”. Qui Giuliana si fa ella stessa maschera e il suo corpo non è altro che mezzo per far vivere una voce, tante voci, quelle delle madri che hanno dato ai figli una vita che la violenza di sistema ha distrutto.
“Mio eroe”. Tre donne, tre dialetti, tre storie di giovani che hanno “pagato un tributo di sangue”. Una di quelle frasi politicamente corrette studiate per manipolare l’opinione pubblica di un popolo ottuso.
Gli eroi: Mauro, Stefano e Michi, tre ragazzi ammazzati mentre erano in “missione di pace” in posti del mondo dove la guerra è l’unica realtà, dove una strage causata da un missile che colpisce un ospedale è solo un “danno collaterale”.
In scena maschere che raccontano donne. Eroine. Una donna semplice, minuta, modesta, delicata, che emerge dall’esperienza della morte come un fragile bucaneve rompe la rigidità del manto nevoso. Una donna dall’incedere nervoso, che attraversa lo spazio scenico come un animale in gabbia mentre inventa un finale meno doloroso a una storia che rischia di tramortirla. Maschere di casi reali usati come espedienti per parlare di etica, politica, religione, compassione.
Le madri di “Mio eroe” non inneggiano all’amore come antidoto all’odio. Subiscono la morte come parte della vita e l’amore diventa un singolo aspetto di qualcosa di immensamente più grande. Sono figure materne che lottano per preservare ciò che hanno creato. Incarnano la vita che lotta per preservare se stessa dal suo potenziale autodistruttivo. Sono donne che pongono domande: “perché devo essere arrabbiata con lo Stato? Chi è lo Stato? Siamo noi lo Stato! E tra noi c’è qualcuno che vuole mandare ad ammazzare i figli?”. E ancora: “In Italia l’hanno votata tutti la missione in Afghanistan, ma a quelli che l’hanno votata e poi mi vengono a dare le medaglie vorrei dire solo una cosa: ma per cosa è morto mio figlio?”
Un testo sussurrato, urlato, quello di Giuliana Musso, che arriva con gentilezza sommessa, si indigna davanti a una guerra costata tanto denaro “con cui ci potevano comprare tutto l’Afghanistan”. Che si adira con dio perché per una madre che piange al di qua del fronte ce n’è una identica dal versante opposto, e per un dio che abbandona i suoi figli in una parte di mondo ce n’è un altro identico che abbandona i suoi nell’altro emisfero. Uomini, donne, dei: aspetti diversi di un’unica realtà, la vita. Una vita appestata dagli stessi veleni: la stupidità della razza umana, la sua avidità, il suo bisogno di odiare in un mondo dove la guerra non è natura, è cultura.
Giuliana ha la capacità di dar vita a molteplici maschere, entrandone e uscendone come un uno che diventa centomila. Sempre diversa eppure così coerente con se stessa, con il suo impegno civile, la capacità di indagare l’essere umano. Con una cifra stilistica non intrappolata in uno stile, ma racchiusa in un modus operandi.
Giuliana Musso, classe 1970, vicentina d’origine e udinese d’adozione.
Diplomata presso la Civica scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano. Durante gli anni della sua formazione predilige lo studio dell’improvvisazione comica, della maschera e della narrazione. In qualità di attrice lavora in diverse produzioni di prosa contemporanea e di Commedia dell’Arte. Dal 2001 si dedica esclusivamente a progetti di teatro d’Indagine, firmando tutti i testi che porta in scena.
Attrice, ricercatrice, autrice, Premio della Critica 2005, Premio Cassino Off 2017 e Premio Hystrio 2017 per la drammaturgia, è tra le maggiori esponenti del teatro d’indagine: un teatro che si colloca al confine con il giornalismo d’inchiesta, tra l’indagine e la poesia, la denuncia e la comicità. Una poetica che caratterizza tutti i suoi lavori: una prima trilogia sui “fondamentali” della vita, Nati in casa, Sexmachine e Tanti Saluti (nascita, sesso e morte), e poi un impegnativo viaggio nella distruttività del sistema patriarcale con La città ha fondamenta sopra un misfatto (ispirato a Medea. Voci di Christa Wolf), La Fabbrica dei preti (sulla vita e la formazione nei seminari italiani prima del Concilio Vat. II) e Mio Eroe (la guerra contemporanea nelle voci di madri di militari caduti in Afghanistan). Nel 2019 debutta a Mittelfest il monologo La scimmia, testo originale ispirato al protagonista del racconto di Franz Kafka Una relazione per un’accademia. Il suo ultimo lavoro “Dentro”, esito di un’indagine teatrale sul tema della violenza intra-familiare, ha debuttato per Biennale Teatro 2020.