di Alessia De Antoniis
Parlando di maschere, il Ginesio Fest ha accolto Francesco Mandelli autore, insieme a Fabrizio Biggio, delle maschere de “I soliti Idioti”.
Francesco e Fabrizio le hanno usate entrambe: quelle fisiche, che si indossano, come Ruggero, e quelle che si interpretano. E con Francesco Mandelli abbiamo parlato di maschere.
Che ruolo ha la maschera nella vita di Francesco Mandelli?
Grazie alla maschera ho capito chi ero. Ogni bambino ha un modo per isolarsi in un’altra dimensione: per me era la maschera, il travestimento. La maschera mi faceva sentire più potente e anche più leggero. Mi ha aiutato anche a superare momenti critici all’interno della mia famiglia. La usavo tutto l’anno. Mia nonna raccontava di quando, un giorno d’estate, durante un funerale, attraversai il corteo funebre vestito da Superman.
Quando ho fatto la prima recita, con una parte scritta, ho capito che quello della recitazione era il mio luogo sicuro.
La tua prima maschera ufficiale?
A diciotto anni ho fatto il mio primo provino per MTV e mi hanno preso. Erano tutti bellissimi. Entro io, rachitico, di Osnago, e il tipo mi guarda come se avesse avuto un’illuminazione, perché era una maschera completamente diversa da quelle che c’erano lì. Quindi mi dà una parte, mi dà una maschera. A un certo punto mi chiedono di rimanere a MTV a fare il presentatore e non avevo la maschera. Dovevo essere me stesso. La cosa bella di MTV era che sembrava che tutti fossero naturali. Ero terrorizzato dall’essere me stesso perché non avevo capito qual era la maschera del me stesso. Perché spesso anche il te stesso è una maschera.
Le prime volte che sono andato a teatro o al cinema, quello che mi faceva impazzire era la possibilità di vivere migliaia di vite diverse. Hai fatto il pilota di Formula 1? Certo, in un film. È meraviglioso. Da lì il processo di avvicinamento a tutte le maschere che sono entrate ne “I soliti idioti”.
Il tuo rapporto con Ruggero De Ceglie?
Quando abbiamo fatto il primo film de “I soliti idioti” e ho indossato per la prima volta la maschera di Ruggero, mi sono trasformato in un’altra persona, ho cominciato parlare come Ruggero De Ceglie. Da quel giorno una brutta persona si è impossessata di me e appariva appena andavo al trucco. Non c’è stato mai un secondo che, truccato da Ruggero, io abbia parlato in milanese. Ho sempre pensato che lo avrei ucciso e non sarebbe mai più tornato. Si sarebbe offeso a morte. So che è una cosa che a lui darebbe profondamente fastidio.
Il segreto del successo dei vostri personaggi?
Quello che abbiamo sempre cercato di fare ne “I soliti idioti” è di vivere la realtà. La nostra missione era quella di raccontare i nostri vizi, i nostri tic, le nostre brutture, e farci una sana risata. Che è quello che ha sempre fatto la commedia all’italiana.
La maschera di Ruggero è nata anche grazie ad altri mostri che ci ho messo dentro: uno era mio padre. È stato catartico. Ho unito mio padre e le sue frasi che mi ripeteva fino alla nausea, come tutti i padri, insieme a un altro personaggio molto noto in Italia che fa il produttore cinematografico… Non facciamo nomi… Il presidente del Napoli. Ma questa cosa è vera e lui lo sa. Avevo lavorato con lui ed ero rimasto folgorato da questa persona così elegante e profumata che riusciva a formulare delle volgarità indicibili indossando un doppiopetto. lo trovavo un ossimoro fantastico.
Com’è essere Ruggero?
Ricordo una volta durante uno stop sul set. Indossavo la maschera e giravamo di notte. Stanco dopo 4 ore di trucco, senza poter mangiare, solo bere con una cannuccia, al ristorante mi addormento come un vecchio, su una sedia, truccato da Ruggero. Mi sveglio e c’erano tutte le comparse che non avevano mai visto una puntata de “I soliti idioti” perché stavamo girando la prima serie. Erano passate due ore e mezza. Corro fuori e comincio a urlare “ma che cazzo state a fa? Io sto là addormentato!”. Ero vestito da Ruggero, parlavo come lui e non capivano se fosse un uno sketch o se ero serio.
Lì ho pensato: che figata! E ho capito che potevo fargli fare tutto quello che lui avrebbe fatto nella realtà.
Ruggero è la maschera che racchiude tutto quello che non va detto, non va fatto, non va pensato, ma è lì la sua forza. Non puoi mettere in scena Ruggero facendogli dire “Gianluca sei una stupidino”. Gli devi far dire “Gianluca sei uno stronzo”. Tantissima gente negli anni mi ha detto: lo sai che il padre di un mio amico è esattamente come Ruggero? In realtà, spesso, è proprio il loro.
Qual è il processo per arrivare alle vostre maschere?
Noi non abbiamo mai raccontato nulla che non avessimo vissuto in prima persona. Ruggero, ma anche la gag della posta. Fabrizio faceva la postina e tutte le volte che arrivavi ti diceva “sì, solo un attimo e sono subito da lei” e poi andava via. A me questa cosa succedeva sempre. Facevo code di un’ora, arrivavo e l’impiegata mi diceva “sì sono subito da lei”. E mi chiedevo: dove cazzo vai? Scompariva dietro a non so cosa e non si capiva cosa andasse a fare. Prendevamo una situazione frustrante e dicevamo: ci giochiamo e la esorcizziamo. Così una cosa che ti fa incazzare poi ti fa ridere.
A quel punto ti serve una dinamica: c’è sempre una vittima e un carnefice. Con Ruggero c’è sempre Gianluca. Poi, all’interno di un racconto che parte dalla realtà, bisogna trovare un tormentone.
Un’altra cosa che ci siamo detti è che non volevamo una chiusa. Non c’era mai una battuta finale, ma una situazione che finiva in vacca. Finito lo sketch, tu hai la sensazione che quei personaggi continuino la loro vita.
Come fai con la storia del politicamente corretto?
Le persone mi chiedono: come potresti oggi fare quella roba lì? È possibilissimo. Devi solo avere il coraggio, è questo il tema. Se racconti una roba vera, nessuno ti può dire niente. Esistono genitori volgari che trattano figli intelligentissimi come se fossero degli incapaci.
La maschera di Niccolò da dove viene?
Niccolò è un bambino di dieci anni. Ha un grembiule con un fiocco azzurro e un grande zaino, che è una parte fondamentale della maschera. La mattina vedevo questi bambini con delle case sulla schiena. Mi chiedevo: partono per due anni di elementari e non tornano più? Cosa c’è dentro? Abbiamo trovato uno zaino gigante, abbiamo creato una maschera con delle guanciotte tenerissime, la parrucca da paggio, e questo bambino usciva di casa andando a fare le peggio cose.
Avevamo costruito una porta gigante così lui sembrava piccolo e diceva sempre: “Mà esco. – Dove vai? – A comprare la droga”. E usciva con questo improbabile zaino. “Hai messo la maglia di lana? – Sì, ma con la droga non mi serve”. Erano scambi di battute allucinanti e la mamma: “sì, va bene, ma torna per cena”. È lì l’assurdo. L’idiota non era lui, ma la madre.
Niccolò è il bambino che ti dice che i genitori non ascoltano i figli. Usciva a fare le peggio cose con il suo amico Gigetto e i genitori, tutte le volte, rispondevano cose che non stavano in cielo né in terra.
Spesso si parla dell’impoverimento del linguaggio e voi avete creato personaggi con la gazzetta dello sport in mano dando voce a dei ragazzi improbabili…
Quella è una maschera completamente diversa che dice solo minchia figa porco***. È una maschera per cui non hai bisogno di trucco e rappresenta lo zero del linguaggio: usa solo tre parole.
Ma dove li trovate simili personaggi?
Quello che facciamo io e Fabrizio è sederci nei posti. L’importante nel nostro lavoro è l’incontro con l’altro, farti raccontare la sua vita avendo voglia di ascoltarlo e capire che personaggio c’è lì dentro. Se ti neghi quella possibilità è un’occasione persa.
I ragazzini di periferia li abbiamo davvero sentiti parlare così. Poi la maschera diventa una caricatura, però quando ci parli, siamo davvero vicini allo zero linguistico fatto da tre parole.
Tra poco faremo una cosa con “I soldi idioti” dove loro scopriranno che stanno per diventare padri, con una che però non sa di chi sia il figlio. Roba meravigliosa mettere questi personaggi terra terra ad affrontare un tema così importante come la paternità. Non vedo l’ora di vedere loro che vanno a vedere la prima ecografia: “minchia la testa… figa“. È vero che ora ci sono ragazzi che vanno a vedere la prima ecografia mentre stanno al cellulare o dicono cose così basiche.
Quando una maschera pesa troppo?
Con gli anni ho scoperto che anche Francesco è una maschera. La prima maschera che è difficile da avere addosso è proprio quella che ci danno alla nascita. Finché non è nata mia figlia, io ero un attore. Il mio lavoro era la mia maschera.
Tra quelle create, la maschera che mi rimane attaccata di più è il vecchio che dice “cazzo Gianluca”. Per la gente sono Ruggero De Ceglie ed è difficile convincerli che sei qualcos’altro.
Il dilemma è: lo accetti o lo combatti? Per un periodo l’ho combattuto, ora sono contentissimo di aver trovato almeno una maschera. Pensa se non ne trovavo neanche una. Sono felice che la gente mi veda come Ruggero De Ceglie, mi fermi per strada e mi dica: mi hai fatto ridere… È ovvio che tutti i giorni dai cazzo Gianluca diventa complicato, ma non posso che essere contento della possibilità che questa maschera mi ha dato.
Quando tua figlia uscirà di casa le dirai basta che torni per cena?
Cercherò di ascoltare con attenzione dove si reca. Non la lascerò al caso. Non voglio essere uno dei miei personaggi. In realtà io sono tutti i miei personaggi, però in quel caso preferisco evitare.
Un personaggio dove c’è un Francesco di cui ti vergogni, ma in fondo puoi dire “non sono io”?
Ruggero De Ceglie. In realtà c’è una parte di me, anche se piccola, che è come lui. In ognuno di noi c’è un pizzico di follia, di violenza. Devi accettare che esista e saperla controllare e gestire. Ma Ruggero è sicuramente quello più aberrante.
Però con tua figlia non sarà “dai cazzo Gianluca”?
No. Non credo di essere così tanto come lui. Ogni tanto mi sembra di essere mio padre, che non era volgare ma rompicoglioni. Quando vado su quei passi lì, me ne accorgo, anche grazie alla mia compagna, e torno indietro.