di Alessia de Antoniis
Filippo Timi ha stregato il pubblico del Ginesio Fest con “One Shot Show”. Dodici ragazzi, cinque giorni di lavoro, un testo scritto per il Ginesio Fest e riscritto per i ragazzi dell’ultimo anno della Scuola del Teatro Stabile di Torino diretta da Leonardo Lidi, direttore artistico del festival teatrale marchigiano giunto alla sua quarta edizione. Lo spettacolo “One shot show” è stato scritto da Filippo Timi e Lorenzo Chiuchiù.
Maria Trenta, Teresa Castello, Martina Montini, Nicolò Tomassini, Alice Fazzi, Matteo Federici, Ilaria Campani, Andrea Tartaglia, Hana Daneri, Alessandro Ambrosi, Francesco Halupca, Emma Savoldi: questi i ragazzi che hanno recitato, cantato, ballato sul palco e tra il pubblico del Chiostro Sant’Agostino di San Ginesio per uno spettacolo emotivo, inquietante, gioioso, coinvolgente.
Sovrasta il palco un portale alto sei metri fatto di plastichina, scenografie realizzate con quello che i ragazzi hanno trovato in paese, vestiti recuperati sul posto.
Il pubblico è stato accolto dagli attori che danzavano e cantavano musiche italiane degli anni Sessanta, come uno di quei jukebox che accompagnavano estati nostrane lontane nel tempo; tutti immersi in un musical trasferito tra le sedie distribuite nell’antico chiostro.
L’atmosfera estiva degli anni del boom lascia poi, improvvisamente, il posto al “Paradiso Perduto” di John Milton. Ma senza antefatto. Una traduzione drammaturgica e teatrale, quella di Timi, dove gli angeli sono già diventati demoni e raccontano gli avvenimenti mentre sono già caduti.
Niente Adamo ed Eva, solo angeli che cadono, solo la passione di Satana e Gabriele, i due amanti del che sfidano Dio, che bramano conoscenza, che chiedono di vedere, di vedersi, che decidono di amarsi totalmente, ad occhi aperti, perdendosi uno nello sguardo dell’altro. Solo l’amore nelle sue due forme: quella sintetizzata nel topos dello spettacolo “Per te, Gabriele, farò sanguinare le cime del paradiso”, e il suo opposto, quell’odio che i due angeli più belli del paradiso rivolgono verso loro stessi: Gabriele cavandosi gli occhi e Satana strappandosi il cuore.
Atmosfere ancestrali, tinte forti, le vibrazioni di una campana tibetana e di un hang suonati dallo stesso Filippo Timi, seduto all’estremità del palco col volto coperto da una maschera. Un Satana che può ora vedere con gli occhi ma non col cuore. Una voce, la sua, che non ha nulla di paradisiaco, ma sembra uscire dalle viscere dell’inferno potentemente patetica.
Un Timi che fonde Milton con Koltès, che fa dire a Satana, rivolto al pubblico, le parole del venditore di “Nella solitudine dei campi di cotone”: “se lei se ne va in giro a quest’ora, in questo posto, vuol dire che desidera qualcosa che non ha. E questa cosa, io, gliela posso dare”.
Un Timi che si rivolge al pubblico con il fascino che usa Satana per sedurre Eva. Che gioca con il testo di Koltès: “se io sono qui in questo posto, io Filippo, è perché ho desiderato tutto quello che ogni uomo, ogni animale, può aver desiderato in quest’ora buia”. Un Satana dal volto coperto, che si è strappato il cuore, caduto da un mondo pieno di luce che non vedeva in uno buio dove può liberamente aprire gli occhi, che conserva, in potenza, il suo splendore. Un Satana che sa avere l’umiltà di fronte a chi desidera, che sa vedere il suo desiderio accendersi come una luce a una finestra in cima a un palazzo al crepuscolo; che sa avvicinarsi come l’alba, con dolcezza, con affetto, quasi con rispetto.
Un lavoro che solo un temerario come Timi poteva rischiare di mettere in scena, in soli cinque giorni, con ragazzi mai conosciuti prima, ma il cui cuore è arrivato a tutti.