Il gusto di cambiare: la transizione ecologica come via per la felicità
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Il gusto di cambiare: la transizione ecologica come via per la felicità

Carlo Petrini e Gael Giraud affrontano la transizione ecologica e la necessità di cambiare il nostro stile di vita per un futuro sostenibile.

Il gusto di cambiare: la transizione ecologica come via per la felicità
Carlo Petrini
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10 Ottobre 2023 - 01.45


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di Antonio Salvati

Gli impatti dei cambiamenti climatici, tra cui inondazioni, incendi e perdita dei raccolti, sono al centro delle nostre preoccupazioni. Un cambiamento appare non più procrastinabile. Secondo Gael Giraud, gesuita e affermato economista francese, «noi occidentali dobbiamo ritrovare la nostra relazione con la creazione». Giraud ci aiuta a farlo insieme Carlo Petrini, astronomo fondatore di Slow Food e Terra Madre, autori del volume Il gusto di cambiare. La transizione ecologica come via per la felicità (Slow Food Editore / Libreria Editrice Vaticana, pp. 176, euro 18). Il volume è impreziosito dalla prefazione di Papa Francesco che valorizza che un credente e un agnostico parlano e si incontrano, pur partendo da posizioni differenti, su diversi aspetti «che la nostra società deve far propri perché il domani del mondo sia ancora possibile: mi sembra qualcosa di bello!».  Lo è ancor di più perché, nel confronto tra i due interlocutori, affiora nettamente la convinzione dell’importanza decisiva dell’unica parola di Gesù, ri­portata dagli Atti degli apostoli, non presente nei Vangeli: «V’è più gioia nel dare che nel ricevere». Infatti, i due interlocutori rilevano nel consumo spinto all’eccesso e nello spreco elevato a sistema il male della contemporaneità, individuando nell’altruismo e nella fraternità le vere condizioni perché il vivere insieme sia duraturo e pacifico.

Il 95% degli scienziati è consapevole che proseguire sulla strada del business as usual sarebbe un suicidio. Non si tratta più di essere ottimisti o pessimisti. Per Giraud ormai «siamo nel campo del realismo scientifico. La transizione ecologica è dunque un dovere, a meno di non voler essere vittime di una fascinazione per il disastro. Che a dire il vero in una certa misura e in alcuni ambienti continua a esistere, ed è molto pericolosa». Un volume, quindi, che è per il Pontefice un dono prezioso, in quanto ci indica una strada e la concreta possibilità di percorrerla, a livello individuale, comunitario e istituzionale: «la transizione ecologica – sottolinea Papa Francesco – può rappresentare un ambito in cui tutti, da fratelli e sorelle, ci prendiamo cura della casa comune, scommettendo sul fatto che consumando meno cose e vivendo più relazioni personali varcheremo la porta della nostra felicità».

Non si tratta di passare da comportamenti “cattivi” a comportamenti “buoni”. Si tratta – avverte Petrini – di cambiare modello sociale, di abbracciare un nuovo paradigma economico, di modificare radicalmente i presupposti e le ragioni del nostro vivere. Ci troviamo al cospetto di una situazione drammatica: «siamo arrivati all’irreversibilità. La transizione ecologica verso un modello sostenibile è l’unica strada possibile. L’impresa è ardua, ma una società civile consapevole può farcela».

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Una del­le parole chiave del nostro ragionamento è sostenibilità. Sostenibile ha la stessa radice di sustain, parola inglese indicante il pedale di destra del pianoforte che allunga la risonanza della nota. I francesi lo traducono in durable. Il termine sottende l’idea che le azioni che intraprendia­mo debbano avere come risultato una durata che persiste, una durata lunga. Al contrario, osserva Petrini, «il cieco perseguimento di una logica capitalistica, inserito nella corsa alla globaliz­zazione degli ultimi settant’anni, ha avuto tra i numerosi effetti la formazione di modelli economici e produttivi insostenibili in quanto di breve durata». Ma chi, come ci insegnano i nostri cugini francesi, «traduce la parola “sostenibilità” – divenuta ormai di uso fin troppo comu­ne – con “durabilità” è in grado di riconoscere a occhio nudo quanto negli ultimi decenni la nostra società si sia drammaticamente impoverita. Con l’industrializzazio­ne e l’uso indiscriminato delle risorse naturali abbiamo provocato, a mo’ di effetto domino, una crisi climati­co-ambientale e una galoppante perdita di biodiversità che non hanno eguali nella storia e che minano la nostra stessa sopravvivenza». Come ha affermato Gaël Giraud, siamo immersi in una dinamica socioeconomica suicida. E dobbiamo uscirne.

Prendiamo un altro punto di osservazione, quello demografico. Da qui al 2050 nell’Africa subsahariana – spiega Giraud – si registrerà il 57% della crescita demografica globale, per cui circa il 23% della popolazione mondiale sarà subsahariana rispetto al 15% attuale e al 10% del 1990. La quota di popolazione globale dell’Unione europea, che oggi si aggira intorno al 6%, scenderà al 4% nei prossimi tre decenni. Ne deriva che, «fra trent’anni, circa 2 miliardi e 300 milioni di persone vivranno nell’Africa subsahariana, a fronte dell’attuale un miliardo e cento milioni. Tassi di fertilità elevati e migliori aspettative di vita sorreggono un ritmo straordinario di crescita demografica che produrrà un drastico incremento della domanda di servizi sociali in Paesi caratterizzati da alti tassi di povertà e di diseguaglianza economica». D’altra parte, il continuo surriscaldamento globale, con l’aumento delle temperature e dei tassi di umidità, «renderà invivibili alcune zone del mondo: l’Africa subsahariana di cui abbiamo detto, ma anche l’Amazzonia, l’America Centrale e la costa sudorientale degli Stati Uniti, parte della Cina e dell’India e una buona porzione del Sudest asiatico. Tutte aree già densamente popolate e con tassi demografici in aumento».

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La transizione ecologica richiede l’inizio di un processo storico che deve trovarci pronti a trasformare il nostro stile di vita e il modo di mangiare, di produrre, di viaggiare, di avere relazioni. Serve un cambio radicale che può avvenire solo attraverso un movimento e una forma di coscienza che mettano in discussione le cattive abitudini, e che alimentino il dialogo fra punti di vista differenti. Non è sufficiente – avverte Petrini – «acclamare la “transizione ecologica” e ribattezzare un ministero. Se nella società non si incardina davvero una discussione profonda, qualsiasi etichetta istituzionale rischia di essere controproducente o quantomeno ininfluente. Noi dobbiamo a tutti i costi favorire i movimenti e le associazioni affinché promuovano una campagna di sensibilizzazione e di responsabilizzazione dai chiari risvolti politici. Voglio dire che è necessario mettere a conoscenza i singoli cittadini del potere che hanno tra le mani. Attraverso i loro comportamenti possono orientare i mercati e fare in modo che anche le istituzioni arrivino a decisioni più consapevoli. Questa sarà la vera politica del futuro». Petrini è chiaro, serve il coinvolgimento di ciascuno: «la politica viene dopo, il “la” non può che arrivare dalla società civile. Oggi su questi temi il dibattito politico è o assente o complice».

Magari partendo dalle nostre abitudini alimentari. Di­minuire le proteine animali nella dieta equivale a meno spreco, meno consumo di energia e di acqua, meno in­quinamento. Colpisce sapere che il con­sumo di acqua per uso personale vale il 9% del totale, il consumo industriale pesa per il 22%, quello agricolo per il 69%. È necessaria una sinergia tra scelte personali e scelte economiche, politiche e sociali perché si possa fare davvero la differenza. Sulla catena alimentare si gioca la partita decisiva. Un terzo del consumo di acqua serve per gli allevamenti intensivi di polli, bovini e altri animali che finiscono sulle nostre tavole. Si consuma più acqua per gli allevamenti che per coltivare ortaggi e frut­ta. È di tutta evidenza che dal punto di vista del benesse­re pubblico tutto ciò non ha senso alcuno. Non solo. Nel mondo si produce cibo per 12 miliardi di esseri viventi. Eppure siamo 8 miliardi. Pertanto, il 33% del cibo viene but­tato. Ossia milioni di tonnellate di cibo prodot­te, stressando ettari ed ettari di terra fertile e utilizzando miliardi di litri d’acqua. Una follia – per Petrini – che non sta né in cielo né in terra. «Ci sono responsabilità morali tanto evidenti quanto enormi. Naturalmente, con diversi pesi fra Nord e Sud del mondo».

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Evidentemente abbiamo bisogno di una decrescita dell’impatto materiale del nostro stile di vita, del modello di produzione e delle abitudini di consumo. Nello stesso tempo abbiamo bisogno di una crescita dei nostri bisogni immateriali di relazioni umane e naturali. Questo non ha nulla a che fare con la povertà. L’obiettivo di una persona e di una comunità – osserva Giraud – non è avere più cose, cioè aumentare il Pil. L’obiettivo è vivere meglio, elevare la qualità dell’esistenza, trovare un senso alla propria vicenda umana. Direbbe l’ultracentenario sociologo e filosofo francese Edgar Morin: «l’essere umano è sottoposto a un conflitto ininterrotto tra il principio del piacere il principio di realtà, tra il suo bisogno di rispettare la realtà e la sua tendenza a negarla. Studiare soltanto uno di questi due aspetti è riduttivo, come lo è la scienza dominante oggi. La parte affettiva, con i miti, le illusioni è fondamentale, perché non nega la realtà, ma la rende sopportabile».

Quasi a voler dar ragione e forza alle tesi dei due autori, Papa Francesco è intervenuto recentemente con una nuova Esortazione Apostolica Laudate Deum, nella facendo propria “la sensibilità di Gesù verso le creature” evidenzia il contrasto con l’indifferenza e l’inazione dell’uomo di fronte a un mondo che si sta sgretolando avvicinandosi pericolosamente a un punto di non ritorno. Dopo aver ricordato che alcuni fenomeni sono già oggi irreversibili ed innescano una accelerazione del riscaldamento globale, come lo scioglimento dei ghiacciai e del permafrost (e ancora l’acidificazione e il riscaldamento degli oceani che sta creando danni enormi alla biologia marina da cui dipende il sostentamento di quasi il 50% della popolazione mondiale) mette in rilievo che i poveri subiscono le maggiori conseguenze dei cambiamenti climatici causati in massima parte dai Paesi ricchi. Nord America ed Europa, con il 12,5% della popolazione mondiale, sono responsabili del 49% delle emissioni mondiali di gas serra. Papa Francesco alla radice del problema pone il “paradigma tecnocratico”, orientato alla crescita dei profitti, che spinto dalla tecnologia ha diffuso l’illusione di una crescita illimitata. L’uomo, così estraniato dall’ambiente, non si fa scrupolo di danneggiarlo per i propri fini. Musica per le orecchie dei due autori. Speriamo anche per i loro lettori.

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