Processo alla Resistenza: l'eredità e le passioni della guerra partigiana in Italia
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Processo alla Resistenza: l'eredità e le passioni della guerra partigiana in Italia

Il libro di Michela Ponzani esplora l'epilogo e l'eredità della Resistenza italiana, rivelando passioni e processi controversi del periodo post-bellico.

Processo alla Resistenza: l'eredità e le passioni della guerra partigiana in Italia
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25 Ottobre 2023 - 00.41


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di Antonio Salvati

Abbiamo sempre avuto in Italia un ampio e vivace dibattito sulla Resistenza. All’indomani della fine del secondo conflitto mondiale il magistrato e partigiano Alessandro Galante Garrone affermò che la Resistenza fu una «guerra di popolo», assai partecipata e, pertanto, capace di legittimare la nuova democrazia sorta nel nostro Paese. Questa interpretazione fu decisamente rivista, soprattutto all’inizio degli anni Novanta quando Claudio Pavone pubblicò un importante saggio sull’argomento, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, che ancora oggi è considerato il contributo più completo ed equilibrato alla comprensione di quegli avvenimenti. Pavone non solo mise in evidenza le tante facce della Resistenza, ma introdusse la novità interpretativa della guerra civile tra italiani combattenti in schieramenti opposti, concetto in grado di comprendere tutte le sfumature di una realtà storica di estrema complessità. Guerra civile che si svolse accanto a quella di liberazione contro il fascismo e il nazismo e a quella di classe per l’avvento di una società più giusta. Appartengo ad una generazione cresciuta con il mito della Resistenza, grazie in particolar modo al racconto del vissuto dei resistenti. Mito che ha avuto diverse forme e diverse stagioni: si potrebbe parlare – disse lo storico Pietro Scoppola – di miti della Resistenza. Il mito della Resistenza, come già avvenne per il Risorgimento, si formò spontaneamente nel ricordo e nella coscienza degli uomini che parteciparono direttamente a esperienze così intense come quelle della lotta armata o del rifiuto a collaborare con tedeschi e fascisti loro alleati, rifiuto pagato con la dura esperienza dei campi di concentramento.

Si aggiunge un ulteriore prezioso tassello alla ricostruzione delle vicende della Resistenza, l’avvincente saggio di Michela Ponzani, Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica (1945-2022) (2023 Einaudi Storia pp. XVI – 238 € 28,00). La Ponzani racconta cosa accadde ai partigiani dopo l’aprile 1945, descrivendo come vissero realmente gli anni del dopoguerra e della rinascita del Paese coloro che la Repubblica avrebbe celebrato come i nuovi eroi della patria, martiri del secondo Risorgimento nazionale. Nello stesso tempo il libro analizza pregevolmente «il nodo spinoso dell’eredità della guerra partigiana nella Repubblica», soffermandosi sul Processo alla Resistenza («tema rimosso dalla memoria collettiva del Paese»), celebrato nelle aule di giustizia dell’Italia repubblicana, che per decenni avrebbe animato il dibattito mediatico, «plasmando distorsioni, manipolazioni, miti e luoghi comuni “antiresistenziali” (di una certa persistenza), in un’infinita serie di polemiche a posteriori». La messa sotto accusa dell’antifascismo «finí col ribaltare le ragioni e i torti, i meriti e le bassezze, i valori e i disvalori; trasformando coloro che avevano combattuto contro nazisti e fascisti in pericolosi fuorilegge che avevano attentato al bene della patria» (esponendola all’invasione angloamericana e ai tragici effetti delle rappresaglie, scatenate dall’esercito occupante tedesco) e messo a repentaglio la sicurezza nazionale, difesa invece fino alla fine dai combattenti di Salò. Assassini, vigliacchi, terroristi, «colpevoli sfuggiti all’arresto» (così scrisse nel 1944 l’organo ufficiale della Santa Sede per commentare i fatti di via Rasella). Facendo leva sulla stampa degli anni Cinquanta, la magistratura del dopoguerra (assai compromessa col regime fascista, per cultura e tradizione) avrebbe giudicato quei partigiani che avevano combattuto una guerra per bande. Mentre ex fascisti e collaborazionisti della RSI, autori di stragi e crimini contro civili, sarebbero stati assolti, riabilitati e persino graziati (anche per via della cosiddetta “amnistia Togliatti” nel 1946) per aver «obbedito ad ordini militari superiori» o semplicemente per la loro natura «di buoni padri di famiglia», i partigiani sarebbero stati giudicati come responsabili (sia pure in via indiretta) per le rappresaglie scatenate dai nazifascisti, per non essersi consegnati al nemico.

Insieme al volume della Ponzani vanno segnalati di pari passo quelli scritti da Chiara Colombini. Autrice di un fortunato pamphlet sui luoghi comuni sulla Resistenza, Anche i partigiani però… (Laterza2021 pp. 115 € 14,00), da poco è in libreria con Storia passionale della guerra partigiana (Laterza, pp. 240, euro 20), interessante e gustosa riflessione il cui titolo già ci dice molto. Infatti, descrive l’amore e le passioni dei protagonisti della Resistenza, raccontandola con i sentimenti di chi la combatté. Attraverso lettere, diari, carteggi si rilevano le passioni come furono vissute durante i mesi della lotta per l’espulsione del fascismo dal nostro paese, senza il filtro dei condizionamenti del dopoguerra. Un modo efficace per mettere in evidenza la storia della Resistenza «in tutta la sua complessità, cercando di ripartire dai suoi aspetti più umani, che sono anche quelli in grado di restituirne interamente il significato». Diverse storie personali uniche con una consapevolezza comune: lavorare per il futuro con l’ansia di gettarsi in avanti, alle prese con tante difficoltà: dalla necessità di organizzarsi («dare forma al caos») al fare cose a cui non si è abituati (produrre documenti falsi, reperire armi, denaro). Convivere con mille domande, dubbi quotidiani sul da farsi, insieme all’amarezza per le cose che non vanno e, spesso, i profondi dissidi interni alle formazioni. Inoltre, una particolare attenzione alle paure e delle loro cause. La paura di non reggere alla tortura, di essere inadeguati a esercitare la violenza. Con una chiara consapevolezza: la violenza dei partigiani ha «carattere difensivo». Ma come spesso accade nelle vicende reali tra la teoria e la pratica c’è uno scarto. Infine l’umanissima nostalgia della vita civile, fatta di ricordi dell’amore per la fidanzata o della moglie. E l’importanza dell’amicizia, quasi sempre decisiva nella scelta iniziale di militare nella Resistenza. «L’amicizia evolveva in comunanza politica e la comunanza politica generava amicizia», ha scritto Pavone. Sono forse le parole più belle per raccontare una lotta in cui gli italiani si mobilitarono «senza che vi fossero stati arruolamenti, senza che alcuno ordinasse l’adunata».

Tornando alla Ponzani è palese – al di là del suo rigore storiografico (il volume è assai documentato, ricco di note) – il desiderio apprezzabile di rendere giustizia ad una generazione cresciuta «all’ombra del “culto del littorio”»,passando«per i tortuosi sentieri di un lungo processo di maturazione, destinato a sfociare nella scelta dolorosa e carica di responsabilità di dover dare una risposta definitiva, risoluta e vigorosa (anche con l’uso della forza) a una violenza massiccia e indiscriminata, che era stata prima di altri e che aveva imposto una reazione a difesa della popolazione civile travolta dalla guerra totale».

La guerra partigiana era stata una battaglia, condotta giorno per giorno «anzitutto contro se stessi e la propria coscienza: una “guerra dentro” che si era accesa di entusiasmi giovanili ma che talvolta aveva rischiato d’impantanarsi tra affanni e inquietudini». Chi scelse di essere partigiano non lo aveva deciso solo per seguire le parole d’ordine dei partiti antifascisti e nel segno delle grandi ideologie; «c’era una dimensione umana molto piú complessa in cui calare quella scelta, che certamente era stata partecipazione attiva a una lotta politica vissuta nel rischio, ma che aveva anche costretto, specie nelle fasi iniziali, tra l’autunno del 1943 e la primavera del ’44, a vivere di intoppi causati da ingenuità, da azioni mal preparate, da inesperienza».

Dopo qualche decennio dalla fine del secondo conflitto mondiale, Italo Calvino sostenne che l’esaurimento della «vita partigiana» lasciava il posto a un’incontenibile voglia di rivoluzionare tutto con «spavalda allegria», a un’ansia di rinnovamento intesa come «senso della vita che può ricominciare da zero». Purtroppo l’orizzonte di quel nuovo mondo presentava immani difficoltà. Infatti, archiviato il 25 aprile, giungeva il tempo d’intraprendere – osserva l’autrice – una nuova battaglia morale (oltre che politica), «quasi palingenetica: plasmare la coscienza di un Paese fondamentalmente indifferente, apatico e stanco della guerra, alla luce di quell’idea di resistenza intesa anzitutto come assunzione di responsabilità». In altri termini, era necessario un nuovo impegno, forse più impegnativo: «avere la forza e la capacità di saper attrarre ai valori dell’impegno e della partecipazione, che già avevano animato la scelta antifascista negli anni della clandestinità, quella parte non irrilevante del Paese che, nella decisione d’impugnare le armi, non si era mai riconosciuta. Scegliere di aderire alle formazioni partigiane era stato, in fondo, un atto di disobbedienza radicale, suffragato giorno per giorno dalla scelta delle armi, inizialmente maturato in solitudine, nell’intimo della propria coscienza, e solo in seguito – con l’irrompere della guerra in casa – rinforzato dalla solidarietà di gruppo». Se la Resistenza lasciava un’eredità, questa andava rintracciata anzitutto nella straordinaria determinazione e nell’immenso coraggio di chi (parte di una minoranza ribelle) aveva sentito forte il desiderio non solo di mettersi fuori legge, ma di farla finita con un mondo che stava crollando, in nome dell’«aspirazione a una sconfinata libertà».

Negli anni Novanta ho avuto il piacere di discorrere di Resistenza con lo storico Pietro Scoppola. Era decisamente convinto il richiamo alla Resistenza è servito negli anni della ricostruzione democratica ed ha avuto un notevole peso. È servito anzitutto alla nuova classe dirigente, di fronte agli alleati vincitori della guerra, per cercare di separare le sorti dell’Italia sconfitta da quelle del fascismo, per riaccreditare l’immagine del paese di fronte alle potenze democratiche, per tentare (anche se con scarsi risultati) di ridurre gli effetti della sconfitta militare nella definizione del trattato di pace (ricordava e citava il discorso di De Gasperi alla conferenza di Parigi). Soprattutto osservava che il consenso al fascismo non cadde di colpo con l’entrata in guerra, ma gradualmente e attraverso molte

oscillazioni; la fiducia nel fascismo entra in crisi non per l’iniziativa dell’antifascismo, debolissima e quasi assente, ma per corrosione dall’interno, in relazione ai disagi economici e alimentari, alla corruzione del regime e soprattutto ai disastri militari. Il mito della Resistenza, legato all’idea di una Italia che ha subito il fascismo e che se ne è liberata per volontà e guerra di popolo è servito – aggiungeva – alla classe dirigente di fronte ai vincitori; è servito agli italiani sul piano psicologico; ma non risponde che per una parte limitata alla realtà: non si può proiettarlo validamente verso il futuro. Il fascismo è stato sconfitto, ma le armate alleate sono state l’elemento decisivo di questa sconfitta e l’eredità del fascismo è destinata a durare a lungo nel profondo della società italiana e con essa la democrazia italiana dovrà – purtroppo – continuare a misurarsi. Non si può fare la storia della rinascita democratica misurandola solo con le speranze della Resistenza.

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