Clitemnestra, Medea, Circe: quanta storia letteraria e dello spettacolo, dal romanzo, alla poesia, al teatro, al cinema, alle arti performative, al fumetto, passa per i tre personaggi femminili per antonomasia della mitologia ellenica? Ebbene, la prodigiosa fecondità dei racconti e dei significati che essi incarnano è lungi dall’isterilirsi, come dimostra la loro brillante rivisitazione proposta da Luciano Violante in una trilogia, che ha trovato coinvolgente personificazione in Viola Graziosi ed in Giuseppe Dipasquale originale allestimento. Lo spettacolo è in cartellone, di giorno in giorno uno degli atti, al Teatro India di Roma sino al 26 novembre, mentre il 19 novembre è prevista una “maratona”: l’attrice li rappresenterà tutti e tre, scindendosi e ricomponendosi in Circe, Medea e Clitemnestra. Assistervi vale la pena già a partire dal luogo, poiché il teatro è stato ricavato da un’antica fabbrica (qualcuno ricorda la Mira Lanza, produttrice di candele, saponi e detersivi, di caroselliana memoria?), che, nella sua esemplarità di archeologia industriale, proficuamente collide con la venusta antichità dei miti che esso ospita.
Ieri è andato in scena l’atto unico dedicato a Circe: più che di rivisitazione, si potrebbe parlare di riscrittura del mito, denso di risonanze freudiane e penetrato dalla storia. Nell’iniziale, ieratica posa di Viola Graziosi al centro di una scenografia che rimanda all’immagine di un omphalos, nei panni presto smessi d’una dea, con la vibrante dizione monologante talvolta spezzettata, talaltra sussurrata, anche gridata ma sempre incisiva, prende corpo un racconto che parte dal mito della figlia di Elios e di Perseide, maga delle maghe nella sua isola di Eea, per poi inglobare un immenso arco narrativo che giunge alla modernità storica, abbracciando sanguinose tappe delle vicende umane e bibliche figure, a cominciare da un Giuda testimone dell’evento degli eventi, che professa inutilmente la propria innocenza, in un capovolgimento di archetipi e di significati teso ad una sintesi della natura mitopoietica dell’essere umano.
Nel dipanarsi del monologo la dea si fa donna, e come tale compie scelte che la liberano dalla fissità del mito, proiettandola nell’umano troppo umano di nietzschiana memoria, rendendola riflesso di irrisolti conflitti interiori, del suo detestato-amato Odisseo e di noi spettatori ammaliati dal suo dire. E nello slittamento ontologico da maga malefica e perfida seduttrice a donna benefica, dunque nel rovesciamento del senso comune del mito, riposa forse il senso più profondo del testo, che propone come un ritornello il concetto “Ci vuole la forza di una donna per guardarsi dentro”. Dunque, la forza di una donna per accettare il nostro mostruoso sembiante morale, con il corollario che forse, acquisendo il punto di vista femminile sulle cose e sulla vita, far proprio il suo grido d’amore mai soddisfatto, guerre morte e lutti potrebbero aver fine nel mondo.
Circe, eterno femminino che padroneggia la parola, vera regina dello spettacolo, vieppiù vivificata da immagini fantasmatiche proiettate su uno schermo posto alle spalle dell’attrice, in cui ella stessa entra come ombra, regno di sagome opache e di essenze luminose, corrispettivo visivo di significati sempre sdrucciolevoli. Una parola che più che emanare dalla bocca pare farsi essa stessa corpo, e nel corpo farsi racconto, com’è nella magia del teatro. In ultimo, nel mare della vita, fluttueranno due navigli, condotti da Giuda e da Odisseo, uniti nell’obbligo e nel desiderio di farsi testimoni della propria esperienza, l’uno, l’innocente mai creduto, l’altro, l’astuto falsificatore, che ama a tal punto la menzogna da mentire anche a se stesso, ma che reca in se la prodigiosa forza di guadagnarsi una tragica libertà andando contro il decreto degli dei, del suo stesso fato. E ciascuno è libero di riconoscersi nella loro deriva esistenziale.