di Rock Reynolds
C’è chi la chiama “The Big Easy” (in quanto caratterizzata tradizionalmente da un’atmosfera rilassata, soprattutto rispetto all’altro faro degli USA orientali, l’altera New York), chi preferisce il nomignolo “Crescent City” (per via della forma a mezzaluna del suo primo insediamento sulle sponde del fiume Mississippi) e chi, invece utilizza l’appellativo molto intimo di Nola, una contrazione quasi inspiegabile per un italiano non particolarmente addentro alle cose americane e, soprattutto, all’oscuro dell’ossessione statunitense di abbreviare le parole, riducendole all’osso del suono di ciò che rappresentano. Parliamo ovviamente di New Orleans, una delle città più affascinanti degli USA, una delle pochissime a distanziarsi dal piattume architettonico e storico che fa da monotono collante al classico “skyline” urbano a stelle e strisce: grattacieli che ormai non hanno neppure più il primato internazionale di opere più ardite e svettanti, oscurate definitivamente dai petroldollari dei paesi arabi e di qualche metropoli dell’Estremo Oriente. Scommetto che pochi avrebbero immaginato che un nome così potesse elidersi nel semplice Nola.
Eppure, New Orleans di semplice storicamente ha poco. Fondata nel 1718 sotto forma di forte dai militari francesi quando ancora la Louisiana apparteneva alla corona e, dunque, prima che il territorio venisse acquistato in blocco dai nascenti Stati Uniti, ha sempre fatto da polo multietnico, multiculturale e poliglotto e da punto di incontro tra la comunità francofona, quella ispanica e quella inglese, per non parlare del fondamentale influsso creolo degli schiavi neri liberati, provenienti dall’isola di Antigua. Il territorio circostante è di per sé un elemento di distinzione, con il vicino delta del Mississippi a farla da padrone attraverso le sue periodiche inondazioni e il lago salato Pontchartrain, che tanta parte ha avuto nel disastro scatenato dall’uragano Katrina nel 2005, con la distruzione dei fragili argini, facendo finire i quartieri periferici della città sotto una coltre malsana di acqua limacciosa. Fortunatamente, il centro storico, il “quartiere francese” nonché primo insediamento, è rimasto integro essendo stato costruito su un’altura intorno alla quale si è sviluppato via via il resto della città.
Insomma, basterebbero queste poche informazioni per creare un’atmosfera da romanzo noir, eppure c’è molto altro a schizzare di chiaroscuro la tavolozza narrativa di ogni romanziere locale che si rispetti. Il primo elemento, naturalmente, è la presenza di una microcriminalità endemica, figlia di un’amministrazione permissiva. New Orleans, soprattutto agli inizi del Novecento, è stata davvero la città del vizio o, se preferite, del divertimento per eccellenza, una sorta di Las Vegas ante litteram. Nel periodo di massimo fulgore, il suo quartiere chiamato Storyville richiamava turisti da ogni parte del paese, con un influsso di denaro non proprio pulitissimo, scialacquato con gusto da biscazzieri malati di gioco e desiderosi di qualche momento di compagnia lontano da occhi indiscreti, tra bettole malsane e case di tolleranza d’alto bordo. Bacco, tabacco e venere? Già. Oltre ai locali di dubbia fama e discutibile moralità su cui una forte malavita organizzata ha immediatamente costruito un impero economico, quel crogiolo di varia umanità ha regalato al mondo un mélange culturale formidabile in cui bianchi, neri, ispanici e creoli avrebbero potuto specchiarsi senza più riconoscersi. Il jazz primordiale ne è l’esempio più fulgido, con storie drammatiche come quella del genio della tromba, Buddy Bolden, talento cristallino ma pure sregolato, finito in manicomio in giovanissima età per non uscirne mai più. Non è l’unico grande nome nella storia musicale della città: Jelly Roll Morton, Dr. John, Professor Longhair, Louis Armstrong, Huey Piano Smith, Fats Domino, Neville Brothers, a loro volta, non chiudono la lista.
E poi c’è l’area circostante, con l’enorme zona paludosa in cui, sul finire del Settecento, in piena guerra anglo-francese, la comunità francofona del Quebec trovò riparo dopo la lunga fuga dal Canada: oggi, i discendenti di quei transfughi, chiamati cajun per via dell’elisione del nome Acadie con cui veniva designato il territorio da loro occupato nella colonia della Nova Scotia, sono integrati nel tessuto socioeconomico della Louisiana, soprattutto intorno alle città di Baton Rouge e Lafayette (nomi che la dicono lunga), ma agitano con orgoglio il vessillo di un’identità culturale a sé stante, con una cucina diversa, una lingua doppiamente imbastardita e una musica bizzarra, una fusione di walzer europei e blues (con violini, fisarmoniche, chitarre acustiche e triangoli).
Perché questo lunghissimo preambolo per parlare di un libro? Perché altrimenti contestualizzare New Iberia Blues (Jimenez, traduzione di Gianluca Testani, pagg 485, euro 22), ultima fatica di James Lee Burke, risulterebbe complicato per chi non si sia mai accostato a un romanzo di questo straordinario autore contemporaneo. E perché la storia da lui raccontata perderebbe quell’unicità e quella regalità che, soprattutto, in Italia, ancora non gli sono state del tutto riconosciute.
Eppure, James Lee Burke non è di New Orleans e, per la verità, non è nemmeno della Louisiana, essendo nato a Houston, Texas. Però, è cresciuto sulla costa del Golfo del Messico, sostanzialmente sul confine tra Louisiana e Texas Orientale, terre molto simili sul piano morfologico e culturale. Molti lettori italiani hanno visto e apprezzato film tratti da suoi romanzi senza nemmeno saperlo. La visione di Omicidio a New Orleans è consigliatissima: malgrado Alec Baldwin sia meno credibile di Tommy Lee Jones nei panni di Dave Robicheaux, il film è decisamente meglio riuscito rispetto al più celebrato L’occhio del ciclone – In the electric mist, diretto da Bertrand Tavernier. Peraltro, essendo tratto dal secondo capitolo della saga di Robicheaux, Prigionieri del cielo, Omicidio a New Orleans potrebbe essere un ottimo punto di partenza per capire meglio le idiosincrasie di questo detective dalla vita non certo semplice.
Dicevo che da noi James Lee Burke stenta a ottenere i riconoscimenti che merita. Eppure, in patria, Burke, oggi quasi novantenne, gode di vasto credito soprattutto fra i colleghi, che ne riconoscono la grandezza e una voce letteraria unica. Il suo personaggio di maggior successo, il detective Dave Robicheaux, uomo burbero, dai metodi discutibili, innamorato dei “bayou”, le zone paludose presso cui risiede e opera ma segnato profondamente dagli orrori della guerra del Vietnam e dalla morte della seconda moglie, assassinata, è davvero una figura già entrata di prepotenza nell’olimpo del thriller americano, accanto a Lincoln Rhyme di Jeffery Deaver, Harry Bosch di Michael Connelly e Hap e Leonard di Joe Lansdale, per citarne alcuni.
Stavolta, Dave Robicheaux se la dovrà vedere con una serie di omicidi apparentemente inspiegabili e difficili da collegare, non fosse che si verificano nella stessa zona a distanza ravvicinata e che sembrano puntare verso Hollywood, con una serie di indizi che lasciano intendere che di mezzo ci sia il fatato mondo del cinema. La crocefissione rituale della prima vittima, ripescata da un corso d’acqua locale, insinua la diffusa ossessione locale per la magia nera e i riti voodoo nelle elucubrazioni di Robicheaux, ma sarà ancora una volta l’azione a corroborare i pensieri di un’indagine difficile in cui distinguere i buoni dai cattivi è quanto mai arduo.
Non fatevi spaventare dalla lunghezza del libro: per me è quasi sempre un deterrente, ma, se le pagine sono ricche di avventura, i personaggi pulsano di vita e la scrittura è scorrevole e vibrante, non si vorrebbe mai che la storia che si sta leggendo finisca. Ed è esattamente ciò che succede con New Iberia Blues. New Iberia, peraltro, è la cittadina in cui James Lee Burke trascorre tuttora parte della sua vita. Il resto del suo tempo lo passa in Montana, quanto di più lontano culturalmente e geograficamente ci possa essere negli USA: di fatto, gli antipodi, anche come stile di vita. Il blues di New Iberia, immagino, non è diverso da quello di ogni altro postaccio anonimo del Sud degli Stati Uniti, dove lo stato sociale latita se non è del tutto assente e dove la vita scorre lenta come le acque limacciose di una delle innumerevoli diramazioni del Mississippi nella zona del delta. New Iberia Blues, invece, ha un incedere ora lento ora frenetico che segue i ritmi sincopati della personalità tribolata del suo protagonista e vi farà divorare le pagine.