di Rock Reynolds
«Il calcio è quello sport in cui si gioca in 11 contro 11 ma alla fine vincono sempre i tedeschi.» Parole che hanno fatto abbondantemente il giro del mondo e che, forse, Gary Lineker, ex-centravanti della nazionale britannica e commentatore sportivo di successo, non pensava che sarebbero rimaste scolpite nella memoria collettiva degli appassionati di calcio come una delle battute più divertenti e tutto sommato credibili della storia di questo sport. Perché di storia in quella frase ce n’è tanta, una storia fatta di tradizionale antipatia reciproca anglo-tedesca e di guerre che per la verità, sul campo di battaglia, hanno sorriso decisamente più alla Gran Bretagna rispetto ai frequenti rovesci subiti sul terreno di gioco.
Oggi, le partite del calcio che conta si disputano in veri e propri monumenti al lusso, strutture progettate dalle più note archistar del mondo per ospitare ben più di un misero terreno di gioco e aridi spalti. Il processo globalizzante della gentrificazione ha colonizzato anche il calcio, insieme al ciclismo lo sport del popolo per eccellenza e tradizione. Oggi, con la costruzione di costosissimi stadi sempre più tecnologici, l’esperienza del tifo viene trasformata in qualcosa di totalmente diverso e multisensoriale, di fatto espellendo le classi popolari da alcuni dei suoi santuari universalmente riconosciuti. Entrare in un grande stadio ha prezzi sempre più proibitivi che, naturalmente, ampie fasce della popolazione non possono permettersi. Quello che un tempo non tanto lontano era lo sport più accessibile di tutti, per i praticanti tanto quanto per gli spettatori, oggi rischia di assumere connotati elitari, di essere vassallo degli interessi feudali delle multinazionali, talvolta supportati da fondi di provenienza dubbia, se non apertamente sporca. Il grande business ha capito benissimo quale giro d’affari possa ruotare intorno a un gioco semplice che non ha mai smesso di affascinare le masse. Eppure, gli aspetti più deleteri del tifo organizzato non sono spariti. Però, il romanticismo è certamente sempre meno preponderante ed è stato reso ormai ridonante da grandi investimenti economici, ipertecnicismo e iperatletismo.
Anche per questo, il noto giornalista sportivo francese Vladimir Crescenzo, con il suo libro Il giro del mondo in 80 stadi (Meltemi, traduzione di Andrea Fornetti, pagg 192, euro 30), il cui corredo di fotografie è parte integrante della narrazione, realizza una vera e propria ode a un calcio che, forse, non esiste più o, per meglio dire, si nasconde ormai tra le pieghe di una società lusingata dall’immediatezza di lustrini che non cancellano le insidie e la pochezza della sua rete di solidarietà. Il viaggio di Crescenzo non fa sconti e non fa eccezioni. L’autore non inserisce nella sua personale lista di stadi di rilievo soltanto gli impianti più noti. Anzi, per intenderci, niente San Siro, Olimpico, Santiagio Bernabeu, Camp Nou, Old Trafford, Allianz Arena, Stade de France e via dicendo. E ci sono luoghi di piacere calcistico ovunque, senza distinzione geografica. Potrebbero farvi sorridere le foto di quelli che ricordano più campetti dell’oratorio che stadi nazionali e che, invece, magari sono proprio strutture di rilevanza statale, come nel caso del campo di Mahibadhoo, in un’isola sperduta delle Maldive, dove si rischia di far finire il pallone nelle acque dell’Oceano se non si prende bene la mira e dove non sempre le partite possono aver luogo perché le squadre ospiti talvolta non possono raggiungere l’isola a causa delle condizioni proibitive del mare. C’è pure un campo in sterrato nella valle di Passu, nel Pakistan, un paese in cui il calcio non è certo il passatempo nazionale e in cui la condizione della donna anche nello sport ha molti passi ancora da fare.
Secondo Vladimir Crescenzo, «Per quanto l’architettura e la tecnologia possano rendere fotogenici questi stadi, evocare questi due soli criteri sarebbe qui privo di senso. Ho dovuto quindi basarmi su altri fattori… Qual migliore modo di celebrare l’estetica di un impianto se non tener conto dell’ambiente in cui è inserito? Montagne innevate, foreste lussureggianti, deserti aridi, mari turchesi e persino città densamente popolate».
Nell’immaginario collettivo, lo stadio resta un luogo fantastico, un’isola in cui le cure della vita quotidiana trovano una momentanea, gradita sospensione e l’impossibile è a portata di mano: insomma, un posto da sogno. «Lo stadio di calcio è un luogo di comunione per eccellenza. Uno spazio nel quale si mescolano tutti gli strati sociali, riuniti per 90 minuti dalla passione per la stessa squadra» scrive Crescenzo. Basterebbe dare un’occhiata allo stadio più famoso del mondo, il Maracanã di Rio de Janeiro, teatro delle due batoste più dolorose nella gloriosa storia della nazionale brasiliana: quella della finale della Coppa del Mondo del 1950 persa con l’Uruguay di fronte a 200.000 spettatori increduli e l’umiliazione del 7-1 patita dalla Germania nella semifinale del Mondiale del 2014. Oppure l’Henningsvær Stadion – anche se sarebbe più preciso dire campo, considerata l’assenza di tribune – su un brullo promontorio delle Isole Lofoten. Il campo di Meshchersky Park, alla periferia di Mosca, sembra sul punto di essere inghiottito dalla vegetazione lussureggiante che ne lambisce ogni lato, soffocando nel suo verde abbraccio le panchine e incombendo sulle porte. Sono in molti a conoscere l’Estádio Municipal de Braga, Portogallo, dato che la squadra locale partecipa quasi ogni anno a una delle varie coppe europee: dietro una delle due porte non c’è la classica curva con gradinata, bensì una minacciosa parete di roccia al punto da meritarsi il nomignolo di “A Padreira” (la cava). C’è spazio anche per tre stadi italiani tutto sommato sorprendenti: il Renato Dall’Ara (per i trascorsi antichi e gloriosi della squadra del Bologna); il Pier Luigi Penzo, lambito dalle acque della laguna di Venezia; e il minuscolo San Costanzo, campo a misura di Capri. L’Estadio Monumental U, un catino da 80.000 posti ad Ate, Perù, sembra abbracciato dai monti aridi che lo circondano.
Ce n’è davvero per tutti i gusti: corporate business o meno, il calcio resta il gioco più bello del mondo o, quanto meno, quello più amato, a ogni latitudine. Con poche parole e molte immagini, Vladimir Crescenzo tocca le corde giuste. Perché il suo libro è stato concepito per «dimostrare che l’anima e la singolarità di uno stadio… sono commisurate a ciò che vi si racconta».