Umberto Terracini il comunista che firmò la Costituzione democratica
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Umberto Terracini il comunista che firmò la Costituzione democratica

Il 27 dicembre 1947 fu firmata la Costituzione democratica e antifascista. Tra i firmatari Terracini, presidente dell'Assemblea Costituente

Il partigiano Giovanni Pesce decorato da Terracini
Il partigiano Giovanni Pesce decorato da Terracini
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27 Dicembre 2023 - 15.18


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Il ritratto del dirigente comunista e presidente dell’Assemblea Costituente scritto dallo storico Paolo Spriano e pubblicato su l’Unità del 7 dicembre 1983 giorno successivo alla morte dello statista che il 27 dicembre 1947 controfirmò la Costituzione

Ci soccorre, pensando a Umberto Terracini, alla sua personalità, quella vecchia battuta di Togliatti che paragonava il Partito comunista italiano a una giraffa, animale raro eppure reale, esistente. Terracini, lungo ben settanta anni di milizia rivoluzionaria, è di certo stato il dirigente comunista più atipico, – eterodosso per tanti aspetti; al tempo stesso in lui si impersonava una continuità di ispirazione, una trasmissione di tratti originari non meno inconsueta. Anche il carattere dell’uomo era difficilmente classificabile nella galleria dei quadri storici del Partito. Capace di straordinaria dedizione e confidenza con il singolo militante eppure riservatissimo, cordiale ma sempre un po’ distante, orgoglioso della propria indipendenza intellettuale e insieme legato a una tradizione che partiva per lui direttamente da Lenin e di cui si faceva a volte polemicamente il difensore. Piero Gobetti, parlando nel 1922 dei giovani dell’ Ordine nuovo» diede un ritratto psicologico di Terracini che ancora oggi pare vivido, fedele. “Il temperamento di Terracini è più di politico che di teorico…E’ antidemagogico per sistema, aristocratico, contrario alle violenze oratorie, ragionatore dialettico, sottile, implacabile, fatto per la polemica e per l’azione”.
Il suo stile oratorio, di grande avvocato, non prendeva mai in prestito una espressione dal consueto nostro gergo politico, si dipanava, proprio implacabilmente, lungo un sottile e tenace filo logico. Ma il suo intervento polemico – chi non lo ricorda dalla tribuna del XX Congresso, per citare la sua ultima memorabile sortita? – aveva anche la durezza la unilateralità che egli ricavava dalle più infuocate battaglie dei primi eroici tempi del movimento. Persino Lenin, al III Congresso dell’Internazionale, nel 1921, aveva dovuto aveva dovuto esclamare “Plus de souplesse, più duttilità, compagno Terracini!”.

In verità, incontriamo Terracini protagonista di tante vicende storiche con connotati personali che lo fanno anche di volta in volta antagonista, oppure brillante comprimario, vuoi di Bordiga, vuoi di Gramsci, vuoi di Togliatti, di cui sapeva esprimere e portare a una ribalta più vasta linee, posizioni, esperienze, dal 1919 al 1928, dal 1946 al 1964 come negli ultimi venti anni, Sempre alla sua inconfondibile maniera.

Un dirigente, un combattente comunista come Umberto Terracini non l’abbiamo trovato e ritrovato soltanto nelle grandi pagine della storia, negli episodi cruciali che portano inciso il suo nome. L’impronta che egli lascia si ricava anche dal quotidiano duro lavoro, politico, legislativo, giudiziario a cui egli non si sottrasse mai. Quanti comizi ha fatto Terracini? A quante riunioni di partito ha partecipato? a quante sedute del parlamento? Quante arringhe defensionali ha tenuto in quei Tribunali della Repubblica la cui Costituzione porta la sua firma? Ci siamo sorpresii più di una volta a pensare negli ultimi tempi, leggendo che continuava ad andare a parlare a Matera o a Trento, a Palermo o a Pontedera: ma quanti anni ha adesso Umberto? Ottanta, ottantacinque? Era nato nel 1895, dal 1911 data la sua adesione al movimento operaio organizzato, dal 1916-’17, essendo soldato i primi guai per la sua opposizione socialista alla guerra che pure si fece al fronte, nel settore di Montebelluna.

Terracini rappresentò il gruppo dell’Ordine Nuovo di Torino nella direzione del PSI nel 1920. Parlò a Livorno al congresso della scissione sfidando bravamente anche una cane aurlante per avere osato dire cose sensate sulla funzione dei cattolici, sul partito Popolare (lui che altrettanto fieramente, cinquant’anni dopo avrebbe osteggiato la proposta del “compromesso storico”…).

Gli toccò, dopo la prima “battuta anticomunista” del governo Mussolini, dopo l’arresto di Bordiga e di Grieco, di dirigere nel 1923 la Segreteria del partito, di reggere poi anche L’Unità e gli toccò di essere arrestato un anno prima di Gramsci, nel 1925, e di battere ogni primato come detenuto politico: dal 1925 al 1943, prima nelle carceri, poi nelle isole di deportazione fasciste.

C’è un episodio che basterebbe da sé a consegnare Terracini alla storia del partito. Fu lui, nel “processone” del 1928, a ergersi da imputato ad accusatore, dinanzi al Tribunale Speciale, ad usare tutto il sarcasmo rivoluzionario di cui era capace contro un regime tirannico trionfante che pure mostrava di avere paura di quella piccola “falange d’acciaio” di comunisti fuorilegge e perseguitati. Anche per questo Umberto Terracini ebbe la condanna più dura, a ventidue anni, due più di Gramsci, di Scoccimarro e di Roveda. Del periodo carcerario, dell’isolamento profondo in cui venne a trovarsi, messo a un certo punto – come egli stesso scrisse – al bando dal partito, tra il 1939 e il 1944, abbiamo fornito, con il suo aiuto, con quello di Alfonso Leonetti e di Camilla Ravera, tutta la documentazione precisa nel nostro lavoro sulla storia del PCI. Rammentiamo ancora l’emozione con cui guardavamo quelle lastre fotografiche tratte dai suoi appunti carcerari, gelosamente conservati, che sembravano incunaboli, scritti su cartine da sigaretta, con una calligrafia alta, diritta, regolare. E quando rinvenimmo tra le carte di polizia la sua risposta a una famosa lettera di Grieco, nel 1928, ci colpì la sua serenità. Scriveva all’amico, Terracini: “sono restato fino a due settimane fa, e cioè per quindici mesi, in segregazione continua: energico collaudo della mia capacità di resistenza, della quale sono sortito senza eccessivo sbilancio. Sarei un fanfarone se ti dicessi che non sono mai stato così bene e che questo è il migliore tra i regimi desiderabili, ma resto nel vero affermando che sono contento di potere senza danni superare i molti anni che mi attendono”. Quella lettera era scritta poco prima della sentenza che egli sapeva dunque che sarebbe stata molto dura.

In sostanza, nella opposizione di Terracini alla svolta settaria del 1929-’30, nel suo richiamarsi agli insegnamenti di gramsci, nel favore entusiastico con cui accolse i risultati del VII Congresso dell’Internazionale Comunista del 1935, nella fermezza con cui egli al confino, nel 1939-’42 contro il aprere del collettivo comunista di Ventotene – che giunse persino a espellerlo dal partito – difese la fondamentale distinzione tra il nazifascismo quale nemico principale e le democrazie borghesi, c’è una grande lezione politica e morale. Egli definiva settaria la svolta in base a due considerazioni essenziali (quelle che ribadì in una vivacissima polemica con Longo di qualche anno fa): che era stata errata la previsione di un’imminente fase rivoluzionaria e che non si poteva paragonare la socialdemocrazia al fascismo, oppure ritenere che la successione al fascismo non passasse attraverso la fase democratica. E se carcere e confino furono per lui più duri ancor ache per altri compagni, quando si vanno a rivedere le ragioni di fondo di quella sofferenza si avverte che essa si esprimeva con un rovello complesso: d’un canto, c’era la sua convinzione che anche Gramsci la pensasse come lui, dall’altro, non voleva staccarsi dal partito, ne accettava la disciplina per potere battersi meglio da posizioni che sentiva giuste, a cui non voleva rinunciare. Era lo stesso dramma di camilla ravera, sua amica carissima, che ne condivise anche la sorte.

Non si capirebbe nulla del Terracini presidente dell’Assemblea Costituente, del Terracini che si pose accanto a Togliatti come fautore della politica di unità nazionale seguita alla famosa svolta di Salerno, se non si vedesse come egli aveva maturato la sua convinzione sulla decisiva funzione dei partiti del movimento operaio italiano nella creazione di un regime di democrazia politica, in quei lunghi, dolorosi anni di solitudine, nel drammatico isolamento fattosi ancor più grave durante la guerra di liberazione. Uscito da Ventotene, Umberto Terracini prima in Svizzera, poi nella repubblica partigiana dell’Ossola, volle nonostante tutto fare la sua parte di combattente della Resistenza accanto al partito che egli aveva fondato e che pur lo teneva ancora fuori della porta, ai margini, finché Togliatti nel 1944 non sanò quell’ingiusta lacerazione.

Non si capirebbe neppure la coerenza dell’atteggiamento critico di Terracini nei confronti dello stalinismo, degli arbitrii e dei crimini del potere personale, delle contraddizioni profonde del sistema burocratico sovietico, lungo tutti questi decenni del post-liberazione, se non si cogliesse come tale critica alle degenerazioni staliniane fosse maturata in lui sino dagli anni del carcere. Allora egli misurava la rottura che si era provocata tra l’epoca leniniana e quella successiva e non lesinava la sua avversione per quello che riteneva un processo involutivo, pur non volendo distaccarsi dalla formazione storica in cui militava e che sapeva vitale per una prospettiva socialista.
Terracini fu l’unico dirigente comunista italiano che nel 1947 osò gettare l’allarme sui pericoli a cui si andava incontro con una contrapposizione frontale, nel clima della guerra fredda, dicendo che tale clima poteva essere alimentato da entrambe le parti. Umberto Terracini nel 1951 votò, ancora una volta solo nella direzione del partito, contro la richiesta di Stalin di poter avere con sé Togliatti a Mosca. E le sue battaglie in difesa dei diritti civili – che essi fossero colpiti in Urss oppure in Italia e altrove – le sue denunce contro le persecuzioni al dissenso intellettuale, contro le discriminazioni a danno degli ebrei come di altre minoranze nazionali ed etniche, portano lo stesso segno, anche la stessa misura.

La presenza nel dibattito politico di Terracini, i suoi interventi nella direzione del Partito, dalla tribuna del Comitato Centrale, sono troppo noti perché ci si debba soffermare a rievocarli. Capitava di condividere oppure di contrastare questa o quella posizione da lui assunta, di trovarla di volta in volta giusta, acuta, oppure troppo sommaria e schematica. Anche qui Terracini sfuggiva ad una catalogazione, di destra o di sinistra. Lasciava emergere ora un richiamo, per così dire antico, a certi netti discrimini di classe nella lotta politica (la DC, ad esempio, venne sempre da lui concepita come il partito della grande borghesia). Ora risaltava piuttosto nelle sue parole e nei suoi scritti la grande ispirazione democratica che aveva guidato molte delle battaglie intraprese dal movimento operaio nel secondo dopoguerra. Terracini era tenacemente attaccato alle regole, alle garanzie della democrazia politica, sia nell’ordinamento dello Stato italiano, sia nella condotta dei partiti della sinistra verso questo Stato, costruito anche da loro. Non per nulla negli ultimi tempi ricordò che bisognava far rivivere non solo la lezione di Gramsci bensì quella di turati, nel nesso tra democrazia e socialismo.

Il compagno che oggi se ne va, lascia un patrimonio di opere e di esperienza politica al suo partito, ci consegna un testamento di dignità, di dirittura morale, di costume rivoluzionario. Una volta, Vittorio Gorresio scrisse un articolo non di maniera su Terracini definendolo “il solitario del PCI”. Ma noi vogliamo ricordarlo in uno dei rari momenti di confidente abbandono che gli abbiamo conosciuto. Si era al Festival nazionale dell’Unità di Modena, per presentare con lui il suo volume sul carteggio di carcere e confino intitolato proprio “AL bando dal partito”. Terracini aveva ricevuto una accoglienza molto affettuosa dagli ascoltatori. Per nulla stanco, alla fine, sedutosi al tavolo di un ristorante del festival, aveva fatto grande onore alle tagliatelle e al lambrusco. Ogni tanto qualcuno veniva a farsi firmare la tessera del partito da lui, a stringergli la mano. Quando tornammo insieme all’albergo, gli dicemmo: “Hai visto, Terracini, come ti vogliono bene i compagni!”. Lui si fermò un istante e disse molto semplicemente: “Ma sia è proprio per questo che vado avanti!”.

Scompaiono con lui la presenza e l’opera instancabili di un combattente indomabile per la causa dell’emancipazione dei lavoratori e per la libertà, di una personalità politica quanto altre mai prestigiosa, di un intelletto di eccezionale acume, di uno spirito arguto, di un maestro del diritto, di un animo forte che ha impavidamente resistito alla lunga detenzione e segregazione nel carcere e nel confino fascisti. Ma non scompariranno l’esempio, la memoria, il patrimonio di sapienza, di moralità, di coraggio che egli lascia la partito e al paese.

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