Quanto sono forti e profonde le radici del nostro neorealismo nel cinema di ogni latitudine. Lo ha testimoniato il regista georgiano Levan Koguashvili nel presentare al Cinema Tiziano di Roma il suo bellissimo “Brighton 4TH”.
Del resto Koguashvili parla di migranti di Tiblisi ma nella storia noi italiani possiamo ritrovarci, risalire ai grandi film del nostro cinema quando hanno raccontato uomini e donne costretti a lasciare la loro terra.
Ieri ci si metteva in viaggio in treno verso il Nord ricco, come in “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, oggi tocca ad altri, di altri Sud, a piedi nel deserto, e poi in mare su un guscio che rende sottile il confine tra la vita e la morte, come in “Io capitano” di Matteo Garrone.
La storia. Lui è Kakhi, ex campione di wrestling. Ha un figlio, Soso, che vive a Brooklyn,nel quartiere russo di Brighton. A distanza, sente che quel figlio lontano vive una difficoltà taciuta al padre e alla madre. Kakhi prende tutto quello che ha, lo mette in una busta, in valigia mette il formaggio georgiano che il figlio gli ha chiesto.
Una volta arrivato, Kakhi, che la vita ha reso più vecchio di quanto sia e che alle pareti di casa ha lasciato foto e medaglie di quando era un prestante e noto atleta nazionale; arrivato in America scopre che il figlio vive di stenti in una pensioncina con tanti altri connazionali. Soso non studia più medicina, come aveva fatto credere ai suoi, vive di piccoli lavoretti facendo traslochi. Cosa più grave, ha accumulato un debito con la mafia locale, 14mila dollari perduti al tavolo da gioco. Un debito che la mafia locale ha già messo all’incasso, con le cattive. Soso deve pagare ora e subito, e i suoi creditori non sono di quelli ai quali si può dire di no.
Kakhi, con un viso che tanto ricorda il nostro Omero Antonetti, l’Efisio di “Padre padrone”, le prova tutte per racimolare soldi da dare al figlio perché saldi il conto con la mafia russa, prova pure a fare il badante. Capisce di avere solo un’arma, quel passato da lottatore che riteneva di aver appeso al chiodo per sempre. Allora, fronteggia il capo dell’organizzazione mafiosa, anche lui un tempo lottatore e che in Kakhi aveva riconosciuto il valoroso atleta nazionale, e lo sfida: se vincerà, il debito del figlio sarà azzerato, se perderà pagherà il doppio del debito, vendendo la casa di Tiblisi.
La sfida è sulla spiaggia, la stessa dove sono state girate altre scene gioiose del film con Soso e la sua bella ragazza che ostinatamente ama quel ragazzo che se le cerca tutte per rovinarsi presente e futuro.
Kakhi ha la meglio, il suo avversario gli riconosce la vittoria, cancella il debito. Il padre ha dato tutto se stesso per il figlio, fa solo in tempo a tornare a casa, stendersi su un letto e morire con accanto il figlio. Tornerà a Tiblisi, morto, ma riuscendo a mantenere la promessa fatta alla moglie nel partire: riporterò nostro figlio a casa.
L’ultima scena, il coro dei poveri cristi di Brighton, che a Kakhi intona una canzone popolare georgiana,così come lui aveva chiesto quando si sentiva vicino alla fine.
Un plauso a Invisible Carpet, che ha avuto il coraggio di distribuire in Italia il bel film di Levan Kpguashvili. La prima, alla presenza del regista e alcuni degli attori, non ha sofferto della concomitanza del Festival di Sanremo. La sala si è emozionata e ha colto il messaggio.
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