La fotografia di Gabriele Basilico su Sky Arte nelle parole di Stefano Boeri
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La fotografia di Gabriele Basilico su Sky Arte nelle parole di Stefano Boeri

“Gabriele Basilico. L’infinito è là in fondo”. Su Sky Arte e NOW l'omaggio al fotografo e architetto milanese. Intervista a Stefano Boeri

Stefano Boeri nel documentario "Gabriele Basile. L'infinito è là in fondo" - intervista di Alessia de Antoniis
Stefano Boeri nel documentario "Gabriele Basile. L'infinito è là in fondo"
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10 Febbraio 2024 - 14.40


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di Alessia de Antoniis

“Gabriele Basilico. L’infinito è là in fondo” è l’omaggio al grande fotografo, architetto, urbanista milanese a dieci anni dalla sua morte. In prima visione su Sky Arte martedì 13 febbraio alle 21.15 e in streaming su NOW, il documentario ripercorre le tappe principali della carriera di Basilico, dalle prime foto di reportage scattate in gioventù, ai Ritratti di Fabbriche della fine degli anni Settanta, fino agli ultimi lavori nelle grandi Metropoli degli anni 2000.

A tratteggiare il profilo professionale e umano di Gabriele Basilico, voci di spicco del mondo della cultura, persone che gli sono state vicine come Stefano Boeri, G.B. Gardin, Oliviero Toscani e Toni Thorimbert, la storica della fotografia Roberta Valtorta, il regista Amos Gitai, la photo editor Giovanna Calvenzi, compagna di vita dell’artista.

Considerato uno dei Maestri della fotografia italiana, per Basilico “La città vera, la città che mi interessa, contiene questa mescolanza tra eccellenza e mediocrità, tra centro e periferia”.

Una delle voci di spicco del documentario è Stefano Boeri. Architetto di fama internazionale, urbanista e teorico dell’architettura, è l’ideatore del Bosco Verticale, uno dei cinquanta grattacieli più iconici al mondo.

Gabriele Basilico e Stefano Boeri, due architetti diversi con una passione in comune: quella per i paesaggi urbani. Basilico che li osserva con la sua reflex e Boeri che li ri-crea partendo dal legame tra uomo e natura a lungo dimenticato.

Ma chi era Gabriele Basilico per Stefano Boeri?

Gabriele era un’amante appassionato dell’infinita variazione delle forme urbane. Amava le architetture di ogni epoca: non importa che fossero nobili, ordinarie o mediocri. Quello che contava era questa continua rapsodia delle forme urbane, per cui non c’è mai un’armonia lineare, ma è un continuo sovrapporsi di volumi, di sorprese percettive, di atmosfere e paesaggi diversi. Gabriele sapeva cogliere la sensualità della città. Il suo era un rapporto non da semplice fotografo, ma da straordinario artista della visione. Coglieva, delle città, questo mondo fatto anche di periferie che stanno nel centro e di centri che stanno nelle periferie. In questo senso io condivido totalmente questa sua passione per l’universo urbano.

Basilico fotografo, architetto, urbanista. A 11 anni dalla morte, possiamo definirlo uno storico?

Ho detto più volte che tra trent’anni o forse cento, chi si interrogherà sulla città europea della seconda metà del ‘900, avrà la possibilità di lavorare sull’atlante di Gabriele Basilico. La sua opera è un documento che descrive contesti diversi per posizione geografica, storia, dimensione, caratteristiche socio-economiche e politiche, ma legati dallo sguardo di Gabriele. Ha guardato la Brianza, la costa settentrionale della Francia, Beirut, San Paolo, Mosca, Venezia, il porto di Genova, Barcellona, sempre con lo stesso tipo di attitudine rigorosa. Lui osserva la città come esplosione delle forme tridimensionali, con le sue rugosità, le zone dove la superficie diventa di colpo liscia, di nuovo si alza e poi diventa convessa e concava.

È stato fantastico nel saper raccontare le ombre che questa infinita, tridimensionale varietà delle forme genera sullo spazio urbano. E lo ha fatto lasciando il calco della presenza umana, che è ovunque, ma senza l’autore del calco: non c’è mai la folla, non ci sono mai individui se non in rarissimi casi. Un’assenza che si fa presenza. L’esercizio di Gabriele è un continuo richiamo a quello che non si vede.

C’è una domanda che sottende le sue foto: le superfici di Beirut, che sembrano come intaccate da una malattia della pelle, a cosa sono dovute? A che tipo di azione dell’uomo? I paesaggi straordinari del nord della Francia, sono stati costruiti secondo quale cultura del paesaggio? Le periferie del paesaggio italiano con quelle orribili distese di villette o capannoni, sono stati creati da quale tipo di società?  Una domanda continua che deriva anche dall’assenza dei protagonisti del calco della città che lui fotografa.

Nel documentario lei dice: Basilico fotografava uno squallido condominio e un edificio famoso con lo stesso sguardo. Lei non guarda una città per fotografarla, ma per cambiarla. Qual è lo sguardo di Boeri quando vede una città?

Con Gabriele condividevo questa passione totale per i paesaggi urbani, a prescindere dalla loro purezza o nobiltà. Lo sguardo che io esercito non è solamente uno sguardo di amore, ma anche uno sguardo riparativo: tendo sempre a cercare di vedere il futuro oltre a scrutare in maniera così sensibile e fantastica il presente. Ma la sensibilità di Gabriele era unica: era uno straordinario detective dello spazio. Quello che invece io faccio è interrogarmi su cosa si può fare per vedere il futuro dello stesso spazio in termini di miglioramento. Spesso è un miglioramento dettato da coincidenze: a volte sono io a scegliere gli spazi dove poter immaginare il futuro, ma il più delle volte sono chiamato da clienti, enti pubblici o privati, che mi offrono la possibilità di pensare il futuro. Gabriele, invece, riceveva offerte da clienti pubblici o privati che gli offrivano la possibilità di rappresentare il presente.

Ha realizzato progetti di social housing in diverse nazioni, partendo dal progetto del Bosco Verticale. Tutti hanno parlato del caso delle case popolari viennesi con  terrazze verdi, tetti con piscine accessibili a tutti, spazi di socializzazione. Nel nord Europa il social housing non è le Vele di Scampia o il Serpentone di Roma. Eppure i costi di costruzione non dovrebbero essere così diversi. Dove sta la differenza? È così difficile armonizzare le politiche abitative a livello europeo?

Ci sono differenze storiche profonde. In alcuni paesi del Nord Europa, l’edilizia pubblica è stata sostenuta e promossa. Anche la cultura della casa di proprietà è meno radicata che in Italia. Il social housing viene visto diversamente nel Nord Europa e in Italia. Non è l’edilizia pubblica, quella che si chiamava edilizia popolare e che è totalmente finanziata, costruita e gestita dallo Stato. Il social housing è una produzione edilizia che coinvolge anche i privati e che ha un costo maggiore dell’edilizia pubblica, perché prevede un guadagno per i privati che accettano di partecipare alla costruzione di edifici che vengono dati in affitto a prezzi convenzionati.

Il social housing è importantissimo perché nelle città italiane c’è una domanda enorme di case in affitto, soprattutto di giovani che hanno un reddito che supera quello, molto basso, previsto per l’edilizia popolare. Se si supera quella soglia si entra in un mondo che è quello del mercato libero, che però è inaccessibile per chi guadagna 20-30 000 euro l’anno.

Quindi la domanda è: come possiamo affrontare la domanda abitativa, soprattutto dei giovani, che si trovano ad avere un reddito superiore a quello delle liste dell’edilizia popolare pubblica, ma non possono accedere al mercato libero dell’affitto che oggi ha cifre, in molte città, inaccessibili? Qui si inserisce il social housing. Io pubblico faccio una convenzione con te privato per costruire in aree che io ti concedo, dove puoi avere un guadagno ma limitato. In cambio tu mi consenti di poter avere immobili da dare in affitto a una cifra contenuta. In Italia c’è poco social housing e poca edilizia popolare. I nuovi progetti si contano sulle dita di una mano e il vero problema è che non c’è neanche una seria attenzione alla manutenzione di questi giganteschi dinosauri di cemento che abbiamo costruito negli anni 70 e 80 del secolo scorso in tutte le città italiane.

Pare che chi arrivava a Babilonia rimanesse meravigliato dai giardini pensili e dalle fontane. Lei preferisce palazzi ricoperti di alberi e piante invece che di vetrate che riflettono il cielo. È finita l’era dell’uomo che plasma l’ambiente ignorando che è vivente anch’esso?

C’è un pregiudizio binario che ha sempre separato la città dalla natura, la produzione artificiale dalla vita, la sfera umana da quella della natura e delle altre specie. Questa visione binaria è quella che ha portato alla costruzione di città quasi solamente minerali, dove il verde era circoscritto ad alcune zone o portato fuori dalla città. La città giardino nasce come un’alternativa alla città storica. Il tema dei parchi e dei giardini nella tradizione europea, nordamericana e sudamericana, nasce come progetto di perimetrazione e di controllo, sempre tenendo la natura vegetale e animale fuori dalla nostra sfera di vita, dalle nostre case, dalle nostre città. Comunque chiusa in perimetri. Questa visione oggi comincia ad essere messa in discussione, perché ci rendiamo conto che questo codice binario ha prodotto dei disastri: abbiamo città minerali con un problema di eccesso di produzione di anidride carbonica, eccesso di produzione di calore, perché il vetro e altri materiali non sono i più consoni a resistere al surriscaldamento delle città. Non ci sono alberi che contribuiscono all’ombreggiamento, all’assorbimento dell’anidride carbonica e delle polveri sottili, oltre a favorire la vita delle altre specie viventi. Si è quindi posto il problema di reintrodurre la natura nelle città. Questa è la nostra ossessione. Noi dello studio Boeri lo facciamo sia con architetture con facciate o tetti verdi, sia promuovendo la forestazione urbana.

Nel docu si racconta di come nacque il termine “fotografare alla Basilico”. L’edilizia “alla Boeri” è solo per ricchi? 

No e non è questa la nostra intenzione. Il Bosco Verticale di Milano aveva una destinazione per famiglie di reddito medio alto, ma era un prototipo. Il costo elevato era dovuto al lavoro di ricerca su temi e tecnologie che non esistevano. Era il 2014 e in questi 10 anni abbiamo sviluppato progetti grazie alle informazioni che il prototipo di Milano ogni giorno ci dava. È stato come avere un tester continuo che ci ha permesso di realizzare moduli verticali accessibili a tutti. Abbiamo costruito in Olanda un bosco verticale di social housing, in Cina abbiamo realizzato due torri a prezzi convenzionati. La prefabbricazione ci sta aiutando a ridurre i costi di costruzione e quindi anche i costi di vendita o affitto degli appartamenti, pur mantenendo quel tipo di combinazione tra piante e materiali artificiali.

La città ideale del Rinascimento era basata su un concetto antropocentrico. Come sarebbe la città ideale oggi per Stefano Boeri?

Non può che essere la città che viviamo. Non ha senso, soprattutto in questa parte del mondo, costruire nuove città. Spesso abbiamo città che si svuotano e che dovremmo riempire con nuove popolazioni e nuove culture, di cui abbiamo un estremo bisogno. È un intervento che faremo da un lato limitando la crescita delle città, dall’altro cercando di sostituire le parti più degradate o meno sostenibili con architetture e quartieri che abbiano questi caratteri.

Personalmente poi, penso al modello di una città arcipelago, dove il verde entra ovunque come se fosse un mare comune, dove i servizi per i cittadini siano distribuiti in modo tale da creare tante micro comunità autosufficienti. Che sia anche una città con grandi funzioni che si rivolgono a tutti i cittadini, non concentrate nel centro ma diffuse nell’intera città. Questo è il tema sul quale stiamo lavorando questi anni.

Transizione ecologica: stiamo perdendo un’occasione?

Enorme. Anche se ci sono elementi positivi che tendiamo a non vedere, perché ci piace poter dire che tutto è un disastro. Penso alla formidabile riduzione del consumo dei carburanti fossili in Europa, con investimenti importanti sulle energie rinnovabili. La prossima esposizione della Triennale di Milano avrà come titolo “Inequalities” e parleremo delle diseguaglianze e di come siano cresciute. Disuguaglianze di reddito, diseguaglianze dovute all’assenza di mobilità sociale, al non accesso ai servizi all’informazione e al mondo digitale. Le disuguaglianze viste in rapporto alla transizione ecologica sono un tema cruciale: oggi i paesi più poveri sono quelli che producono meno anidride carbonica, ma sono le vittime prime del cambiamento climatico; mentre i paesi più ricchi sono quelli più protetti pur avendo la responsabilità maggiore del cambiamento climatico globale. È esattamente quello che vediamo nei territori europei: la città dei ricchi e la città dei poveri. La città dei ricchi verde, con i pannelli sonali, le auto elettriche, mentre la città dei poveri non è così. Ma, alla fine, è la città dei poveri che soffre di più l’inquinamento acustico, atmosferico, del surriscaldamento globale perché mancano gli alberi. Questa intersezione, come si dice oggi, tra transizione ecologica e superamento di alcune delle principali polarizzazioni sociali delle disuguaglianze, è la vera sfida dei prossimi anni.

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