È un momento particolarmente intenso per Lara Balbo, tra le più interessanti esponenti della scena artistica italiana, giovane attrice che vanta già una carriera di tutto rispetto, spaziando dalla danza al teatro – in cui ha lavorato con registi come Gigi Proietti, Claudio Bigagli, Massimiliano Bruno – al cinema, dove a partire dal 2015 ha recitato in Gli ultimi saranno ultimi a fianco di Paola Cortellesi, Alessandro Gassman e Stefano Fresi, per la regia ancora di Massimiliano Bruno, Startup, firmato da Alessandro D’Alatri, e Affittasi Vita, diretto da Stefano Usardi, fino alla fiction televisiva Rai, con ruoli di rilievo in La strada di casa 2 e Che Dio ci aiuti. È infatti interprete insieme a Enzo Salvi e Sebastiano Somma dell’opera prima di Emiliano Locatelli Il diavolo è Dragan Cygan, in uscita nelle sale il 12 marzo, pellicola a cavallo fra thriller e poliziesco, tentativo di ibridazione tra film di genere e cinema d’autore. Ma non solo: dal 19 al 23 marzo sarà protagonista con Matteo Milani, anche regista, di Finché mela non vi separi, pièce teatrale in scena al Teatro Tor Bella Monaca di Roma liberamente tratta da Il diario di Adamo ed Eva di Mark Twain, acuta riflessione sulle dinamiche del rapporto amoroso a partire dall’archetipo della coppia primordiale. L’abbiamo incontrata per Globalist.
Puoi parlarci del personaggio che interpreti nel film di Emiliano Locatelli, Evelyn, e di come ti sei calata in questo ruolo?
Evelyn è una giovane donna, di buonissima famiglia, che vive un rapporto conflittuale con il padre, proprietario di un’azienda facoltosa pronta a delocalizzarsi all’estero. Vive un momento di grande difficoltà, è un personaggio fragile, che cerca di reagire alle sue difficoltà prendendo strade sbagliate, quali la tossicodipendenza e la prostituzione. Questo è anche un suo modo per non seguire le orme del padre ricco, con cui non vuole più avere niente a che fare, e da cui non vuole nessun tipo di favoritismo. È un personaggio abbastanza singolare, che nasconde un segreto importante, che giocherà un ruolo fondamentale nell’arco narrativo del film.
Quando studio un personaggio cerco sempre di studiare il mondo da cui viene quel personaggio, e vado ad individuare la sua fragilità più grande, il suo tallone d’Achille. Parto da quello, cerco di empatizzare con quel dolore o quel conflitto che vive. Per il personaggio di Evelyn non è stato difficile individuare la sua “crepa”, quello che è stato interessante è stato restituire un mondo che non conosco e non mi appartiene. Secondo me doveva raccontare uno spaesamento e una rabbia, negli occhi. Tipico di chi ha tutto dalla vita, ma non vuole niente di quello che ha, perché le viene dato dal suo nemico, che nel caso di Evelyn è il padre. Ho studiato molto come farli muovere, quegli occhi, proprio fisicamente.
Teatro, cinema, televisione, danza: una carriera poliedrica, la tua. In quale di queste espressioni artistiche ti riconosci maggiormente?
La recitazione, sicuramente. Che sia teatro, cinema o televisione. La danza è stato un passaggio importante e fondamentale, è stata un’iniziazione, mi ha fornito gli strumenti e una disciplina che ancora mi sono utili nel lavoro. È stato il mio primo approccio allo spettacolo. Poi però, studiando recitazione è lì che ho avuto la sensazione di essere nel posto giusto. Di fare la cosa giusta per me. Una forma di espressione che mi permette davvero di raccontare ciò che per me è necessario. Tra il teatro, il cinema e la televisione, posso dire che il teatro è il mio primo amore, ma che il cinema è ciò che cerco di più in questo momento.
Vi sono attrici, di teatro o di cinema, da cui trai ispirazione?
Kate Winslet e Meryl Streep se parliamo di internazionali, italiane Maria Paiato e Mariangela Granelli.
Insieme a Matteo Milani hai realizzato l’adattamento teatrale de “Il diario di Adamo ed Eva” di Mark Twain. Come hai affrontato l’impegno di confezionare un testo da portare poi in scena?
L’idea di “Finché mela non ci separi” nasce molto tempo fa, quando lessi per la prima volta il testo di Mark Twain. Volevo in qualche modo portare in scena il concetto che Mark Twain propone, ossia che l’amore è una piacevole conquista e non un idillio. E di questi tempi, credo fortemente che parlare d’amore sia più che necessario, parlare di come non sia facile stare in una relazione che prevede momenti belli ma anche grandi crisi. Siamo in un’epoca in cui è molto più pratico buttare via ciò che si è rotto piuttosto che aggiustarlo. E lo si fa anche nelle relazioni, ma l’essere umano è qualcuno di cui si deve avere cura e rispetto, e la cura e il rispetto richiedono impegno. Amare è un lavoro, difficile ma molto bello. Non è stato facile realizzarne uno spettacolo, il rischio che non ci fosse anche una nostra identità nel testo era grande, Twain ne aveva realizzato una narrazione esilarante. Ma era una narrazione. L’adattamento teatrale è un’altra cosa, ha altri canoni da rispettare, e tra questi l’essere fruibile al pubblico attraverso la stesura di dialoghi. Devo dire che realizzarlo insieme a Matteo Milani, che oltre ad essere nel cast ne ha curato la regia, mi ha fatto capire quello che dovevo mettere in luce del testo. La prima messa in scena, nel 2021 al Teatro Marconi, è stato un bagno di sangue, era tutto sulle nostre spalle, ci siamo occupati di tutto, anche della produzione. Ma ne è valsa decisamente la pena. Il pubblico ha risposto con grande entusiasmo, tanto che ancora oggi lo stiamo portando in scena, e finalmente con il sostegno di Politeama (famiglia Proietti), che ha creduto in noi, e che ringraziamo.
Nel 2022 hai fatto parte del cast di “Ripley”, una produzione internazionale diretta dal premio Oscar Steven Zaillian. Che esperienza ne hai ricavato?
Credo sia stato il lavoro più bello finora. Anzi lo confermo. Steven Zaillian è un regista che lavora con tutti gli attori, siano essi protagonisti o ruoli secondari, in collaborazione, in totale collaborazione, e questo dovrebbe essere, sempre. Per lui era estremamente importante la mia resa, e la mia condivisione del lavoro. Accettava le mie proposte di attrice e mi chiedeva se le sue indicazioni potessero essere condivise da me. Ho girato a Venezia, quindi in una cornice meravigliosa, con Andrew Scott, attore di una bravura e una disponibilità rara. Il set era enorme, e organizzato benissimo, il clima era di totale agio e tranquillità. Insomma, si lavorava estremamente bene. Uscita da lì ho avuto la sensazione di aver davvero fatto parte di un progetto bellissimo. Non vedo l’ora di vederne i risultati.
Hai collaborato ad un progetto teatrale diretto da Elena Sbardella, con l’incontro tra attori professionisti e ragazzi disabili, per confermare il valore riabilitativo del teatro, e tuttora ti dedichi all’insegnamento della recitazione e delle arti sceniche. Quanto ti arricchisce, dal punto di vista umano e professionale, questa attività?
Credo nel potere riabilitativo del teatro, credo nel potere educativo del teatro. Mi sono laureata in Scienze dell’educazione portando una tesi proprio su questo tema. Il teatro deve educare, per cui nostro dovere di artisti è proprio fare attenzione a che tipo di teatro si propone al pubblico. Bisogna stare molto attenti a non allontanare ulteriormente il pubblico dal teatro. Insegnare mi arricchisce, perché è un lavoro a doppio senso: io cerco di trasmettere qualcosa, ma di ritorno dai miei allievi ho sempre qualcos’altro di molto molto più bello. Molto spesso mi capita di capire meglio un testo, o un monologo, nel momento in cui lo vedo realizzato da loro. Insegnare teatro agli adolescenti è un privilegio, è quell’età in cui si definiscono le identità, in cui non si sa bene dove andare, un periodo in cui si entra in crisi e si ha necessariamente bisogno di punti di riferimento e di modelli di vita, sono felice che il teatro che insegno possa essere per alcuni di loro uno di questi riferimenti. Perché è qualcosa di sano. Perché attraverso il teatro ci si educa alle emozioni, si impara a stare in relazione, si percepisce la sacralità del rito teatrale che è anche della vita.