di Rock Reynolds
In un libro di diversi anni fa che credo di aver regalato a qualcuno, il noto giornalista musicale inglese Nick Kent scriveva più o meno questo, a proposito del suo primo incontro con Bob Marley e i Wailers: «Mi aspettavo di trovarmi di fronte a una specie di mistico con i suoi discepoli e, invece, mi sentii davvero intimidito. I musicisti che conobbi in quello studio di registrazione sembravano più che altro un’inquietante banda di teppisti».
Una descrizione che cozza fortemente con l’immagine che Bob Marley, al secolo Robert Nesta Marley, ha lasciato ai posteri, dopo un’esistenza terrena vissuta intensamente. Tutti sanno che il re del reggae è scomparso prematuramente, nel 1981, una fine intempestiva che, come spesso tristemente succede, ha contribuito a plasmarne l’immagine di stella universale, di simulacro da idolatrare che ha finito per diventare. E dire che, pochi anni prima di morire, era stato vittima di un aggressione a mano armata che per poco non lo aveva ucciso.
A pochi giorni dall’uscita nei cinematografi italiani del film Bob Marley. One Love, qualcuno ha pensato bene di riproporre una sua biografia tutta italiana. Bob Marley. One Life (Newton Compton Editori, pagg 254, euro 12,90) di F.T. Sandman, il cui nuovo titolo strizza l’occhio a quello del film, è un interessante libro, a metà strada tra un saggio critico, una raccolta di interviste, una breve biografia e una serie di riflessioni da appassionati, proposte come tali e non come verità costituite.
L’ingenuità di fondo di Bob Marley. One Life è al tempo stesso il maggior pregio e il vero difetto dell’opera che, però, risulta intrigante, capace di fornire al lettore non esattamente addentro al mondo di Bob Marley un’esauriente infarinatura delle informazioni fondamentali per capirne l’opera e la grandezza.
La Giamaica, terra di provenienza di Bob e fulcro della musica caraibica, a partire dallo ska per arrivare al reggae, è sempre stata un paese agitato da forti pulsioni sociali di chiara matrice post-coloniale, con una società divisa tra i nullatenenti e i super-ricchi – non certo una novità, considerato che è il destino comune di ogni ex-colonia, non solo britannica – e da un tasso delinquenziale elevatissimo, specialmente a Kingston. Anche da lì deriva la fervente passione di Marley per la canzone dai contenuti politici, un passo avanti rispetto alle tematiche proposte da cantanti come Desmond Dekker e Jimmy Cliff, famosi in patri prima che lo diventasse lui.
Le origini di Bob non sono diverse da quelle di molti coetanei, se non che la sua è una famiglia mista: la madre è di colore, mentre il padre, che praticamente Bob non ha mai visto, è bianco. Un elemento che ha certamente contribuito a sviluppare nella futura star della musica un senso personale della giustizia razziale e pure una rara apertura mentale. Bob ha svolto diversi lavori prima di approdare alla musica, ma le sue doti di leadership, ancor prima che il suo indubbio talento musicale, avevano in sé il tracciato umano che la sua breve parabola avrebbe seguito. La sua era una sorta di famiglia aperta che viveva secondo i dettami della vita rurale, senza particolari cure se non l’esigenza quotidiana del nutrimento.
Ricordo bene i giorni di attesa del mega-concerto che Bob Marley & The Wailers avrebbero tenuto a San Siro, il 27 giugno 1980, alla presenza, pare, di 90.000 spettatori adoranti e, soprattutto, fumanti. La marijuana, la ganja, era l’erba sacra alla bizzarra religione rastafariana di cui Marley era un seguace stretto. Bizzarra non perché i suoi rituali fossero conditi da spinelli di canapa indiana invece che da effluvi di incenso – in fondo, ognuno ha i propri fumi – ma, piuttosto, perché predicava la contrapposizione biblica di Sion come luogo della virtù e di Babilonia come centro del vizio, ovvero l’Africa e il modo occidentale. E profeta di tale religione, nata negli anni Trenta, era l’imperatore Hailé Selassié I, al secolo, per l’appunto, Ras Tafari, il secondo Messia. Peccato che lo stesso Selassié più volte abbia dichiarato di non essere l’incarnazione di nessuno. Ma tant’è. Nell’animo curioso di Bob Marley stava crescendo il seme di una spiritualità a metà strada tra una libertà incondizionata e l’appello a tutti i discendenti degli schiavi di colore delle Americhe di far ritorno in massa alla madre Africa. E l’Etiopia di Ras Tafari ne rappresentava l’ipotetico centro spirituale, considerato che i popoli di Etiopia, Sudan ed Egitto sono considerati discendenti di Cam, figlio di Noè. E Bob parlava alla sua gente di libertà assoluta, al di fuori di fastidiosi precetti e divieti: libertà di fumare ganja, di esprimersi attraverso la musica, naturalmente, e di amare. E, come scrive F.T. Sandman, Bob Marley ha tanto amato, mettendo al mondo una nidiata di figli, alcuni insieme alla moglie Rita e diversi altri con compagne occasionali o meno, alcuni riconosciuti e altri no. Insomma, a Bob Marley le donne piacevano parecchio, eppure il misticismo che tutti gli riconoscono è sempre stato una delle sue facce principali. «Non ho una sola ragazza, ne ho più di una. Mi sento autorizzato ad avere tutte le ragazze… Non tutte insieme… ma un po’ alla volta.»
In Bob Marley. One Life troverete molti riferimenti ad album e canzoni e l’invito, naturalmente, è di sentirle o di risentirle perché davvero c’è un corpo di brani senza tempo in cui anche l’ascoltatore più disattento prima o poi si sarà imbattuto.
Dicevamo che una certa ingenuità traspare tra le pagine, come se l’autore avesse voluto essere in assoluta sintonia con Bob Marley, le cui parole contenute nella lunga sezione delle interviste che compaiono nel libro, la dicono lunga sulla sincerità e pure su una certa furbizia dell’artista. Non voglio togliere al lettore la curiosità di scoprirlo da sé, ovviamente.
C’è il Bob Marley che discende direttamente dal soul e dal rhythm’n’blues e c’è il Bob Marley che quasi strizza l’occhio alla canzone di protesta. In fondo, esiste una sorta di internazionale afroamericana che permea tutta la musica di qualsiasi società discendente dalla ignominia della tratta degli schiavi e tra le star predilette da Bob c’erano Ray Charles, Jerry Butler e Curtis Mayfield. Ma Bob aveva un’idea quasi messianica della musica e si era assunto in maniera non so quanto consapevole il ruolo di trascinatore del popolo rastafariano, un popolo variegato, che comprendeva gli adepti di colore tanto quanto frequentatori bianchi meno entusiasti e più superficiali. Da trascinatore qual era si prometteva di promuovere una maggior giustizia sociale e di aspirare a una società in cui agli africani fosse restituito con gli interessi ciò che la storia gli aveva tolto. «Il reggae diventerà una forma di lotta… È la musica del Terzo Mondo.» Una visita in Etiopia Marley la fece, ma l’obiettivo finale delle sue peregrinazioni e della sua incessante opera di predicatore laico andava ben al di là di un semplice viaggio. «Il rastaman deve andare a casa in Africa. Per certa gente questa cosa suona divertente, una specie di follia… Non sarò del tutto felice fino a quando non ci sarà la nostra definitiva riunione in Etiopia.»
Ma che importa, in fondo, se il messaggio è un po’ confuso? La musica è musica e quella di Bob Marley – un’espressione in levare, figlia della voglia di vivere e ballare dei Caribi – era quanto di più coinvolgente si potesse ascoltare sul finire degli anni Settanta. C’erano i dreadlock, le treccine rituali, certo, e c’era e la ganja. «Quando fumi erba conosci meglio te stesso… L’alcol distrugge, mentre l’erba costruisce.»
Forse, come accade spesso, Bob Marley fu una star della musica quasi per caso. «Se non fossi diventato un cantante sarei stato un calciatore… o un rivoluzionario. Il calcio significa libertà.»