di Lorenzo Lazzeri
Nella nostra epoca, anche la comunicazione della criminalità organizzata ha subìto una metamorfosi di notevole impatto, in particolare, la camorra napoletana ha sfruttato le piattaforme social per una propria reinvenzione narrativa. È emersa così quella che potremmo definire una “TikTok Social Camorra“; un fenomeno divenuto quasi virale che ha creato una propagazione capillare dei valori camorristici, attraverso atteggiamenti esibizionistici socio patologici.
Il fenomeno rivela una sinergia perversa tra le dinamiche della comunicazione digitale e le strategie di consolidamento ed espansione dei clan che, a differenza di altre organizzazioni mafiose come “Cosa Nostra”, “‘Ndrangheta” o “Sacra Corona Unita”, si distingue per la sua struttura fluida e decentralizzata.
Un insieme di piccole entità pulviscolari che possono sia unirsi che disgregarsi in un ordine alternativo a quello dello Stato per indirizzare il disordine sociale sfruttando le condizioni di precarietà ed emarginazione con la promessa di guadagni facili e consistenti, esercitando così un’influenza e un forte fascino sugli strati più poveri della società.
Caratterizzata da un cinismo spietato e da un marcato opportunismo economico, la camorra si dimostra estremamente invasiva e versatile, capace di infiltrarsi in qualsiasi attività economica attraverso l’intermediazione violenta. La visibilità e l’ostentazione sono, dunque, tratti distintivi dei suoi affiliati che, vedono nella detenzione in carcere non un disonore, ma un segno di prestigio e di appartenenza ad un ristretto gruppo sociale; la galera si trasforma così un luogo di affermazione e di consolidamento del proprio status all’interno della rete criminale.
Nell’era digitale, la camorra ha abbracciato forse casualmente, ma con evidente sapienza, i nuovi mezzi di comunicazione. Piattaforme come TikTok, Facebook e Instagram, sono utilizzate non solo per esibire il lusso derivante dalle attività illecite, ma anche come strumenti per affermare il proprio potere, lanciare minacce e messaggi ai collaboratori di giustizia. Si crea così una sorta di “reality show” delinquenziale che rende i malavitosi veri e propri influencer del crimine alla ricerca di nuove leve e supporto sociale.
In questo contesto, la ricerca di Marcello Ravveduto, presentata nel primo Rapporto sulle Mafie nell’era digitale, evidenzia come i social media abbiano permesso ai gruppi criminali di raccontarsi in prima persona, superando i tradizionali filtri mediatici e proponendo un’immagine “trasparente” della vita criminale. Un’immagine meno contrassegnata dalla violenza sfacciata, ma non per questo meno pericolosa, con lo scopo di perpetuare quel linguaggio criminale profondamente radicato nel tessuto sociale cittadino.
È chiara, oggi, per la società e le istituzioni, la sfida di comprendere e contrastare questa nuova forma di comunicazione deviante, che sfrutta Instagram, ma soprattutto TikTok con un effluvio cifrato fatto di hashtag, emoticon, musica trap o neomelodica che producono un effetto di mascheramento, permettendo un’ulteriore penetrazione inconsapevole nel tessuto sociale sensibile.