di Marialaura Baldino
Era il 1944, il mondo era in guerra, Napoli si era liberata dall’occupazione nazifascista e gli alleati erano rimasti in città dopo la Battaglia di Cassino. Alla disperazione dovuta al secondo conflitto mondiale e alla fame e agli stenti causati dai bombardamenti ci si aggiunse anche il Vesuvio.
Il vulcano che sovrasta il golfo, con le pendici che scendono sinuose a mare, iniziò ad eruttare il pomeriggio del 18 marzo di 80 anni fa: nubi ardenti, fiumi di lava, cenere e polvere che ricoprirono il suolo e distrussero San Sebastiano e Somma.
Un’eruzione sub-pliniana, come la descrisse l’allora direttore dell’Osservatorio Vesuviano Giuseppe Imbò, di moderata attività esplosiva, che risparmiò Napoli solo grazie alle correnti d’aria che spinsero le nubi tossiche di cenere lontano, verso sud-est, ma che colpirono i paesi di Terzigno, Pompei, Scafati, Angri, Nocera, Poggiomarino e Cava.
Seguirono alcuni terremoti di assestamento, con la nascita di nuove fratture e nuove fumarole sulla superfice vulcanica.
Le quattro fasi di eruzione descritte da Imbò, il quale decise di non abbandonare l’Osservatorio per studiare il fenomeno, ebbero fine dopo qualche giorno dopo, intorno al 24 marzo, quando le esplosioni diventarono meno frequenti e la cenere passò da colore scuro a chiaro.
Se a testimoniare l’attività vulcanica del 79 d.c. c’era Plinio il Giovane che documentò il disastro di Ercolano e Pompei nelle Lettere a Tacito, nel 1944 il Vesuvio costrinse i commando alleati a rivolgere il naso all’insù. Fu proprio grazie alla presenza dei cineoperatori statunitensi che un’eruzione vesuviana venne documentata – per la prima volta – con riprese in tempo reale e fotografie.
Una cosa mai vista prima di allora da molti soldati d’oltreoceano, che all’inizio non capirono cosa stesse succedendo. ‘’Peggio che sotto un bombardamento”, testimoniarono alcuni, quando gli squadroni di soccorso americano furono chiamati come supporto alla popolazione, tra pietre infuocate e cenere che cadevano dal cielo come se piovesse.
In un campo di volo fuori città ottantotto bombardieri B-25 Mitchell dell’aviazione statunitense vennero distrutti o ricoperti e danneggiati dalla cenere. Peggior destino fu riservato alle coltivazioni nella piana campana, completamente bruciate. Cosa che preoccupò molto gli abitanti, o almeno quelli rimasti, già affamati dalla guerra.
L’ufficiale dei servizi segreti inglesi Norman Lewis scrisse: ‘E’ stato lo spettacolo più maestoso e terribile che abbia mai visto (…). Il fumo dal cratere saliva lentamente in volute che sembravano solide. Di notte fiumi di lava cominciarono a scendere lungo i fianchi della montagna. (…) Periodicamente il cratere scaricava nel cielo serpenti di fuoco rosso sangue che pulsavano con riflessi di lampi’’.
Altri operatori stranieri colsero forse l’aspetto più caratteristico di tutta la vicenda: i napoletani che rivolgevano le effige di San Gennaro verso il Vesuvio, pregandolo di proteggerli e di arrestare l’eruzione o delle processioni con il santo in direzione delle colate mentre cantavano il Te deum.
A distanza di 80 anni i segni di quell’eruzione sono ancora visibili, attraverso le case ricostruite sopra gli strati di lava solidificata o la chiesa a San Sebastiano rimasta in piedi anche dopo il disastro. Ma anche e soprattutto attraverso le foto e le riprese prodotte dagli alleati; dei documenti che non sono solo importanti reperti per la memoria storica, ma fonti essenziali per il supporto di studi e ricerche sviluppati dalla vulcanologia moderna.