«Sono un cattolico praticante? Se con ciò si intende “Sei uno che va abitualmente in chiesa?”, la risposta è no. Tuttavia sin da ragazzo mi sono convinto che la pratica non è qualcosa che avviene soltanto in un edificio consacrato e nel corso di certi riti a un’ora certa del giorno. La pratica è qualcosa che accade fuori, sempre. Praticare, davvero, è fare qualsiasi cosa tu faccia, di buono o di cattivo, e riflettere su questo. Questa è la sfida. […] Come molti bambini, ero oppresso e profondamente impressionato dal lato severo di Dio che ci era stato presentato: il Dio che ti punisce quando fai qualcosa di male, il Dio tuoni e fulmini…»
Martin Scorsese parla di Dio, di grazia, di fede, di salvezza, di un nuovo film su Gesù, e lo fa in un modo così semplice e profondo, intenso e comunicativo, da costringerci a starlo a sentire, a seguire i suoi ricordi di quando ero bambino, o delle scene dei suoi film, per capire qualcosa di noi, di quel che lui sa dirci grazie a una vita particolare e a un genio che abbiamo visto manifestarsi in tante pellicole. E’ la storia di Martin Scorsese quella che in questo libro intervista condotta con invidiabile maestria (tempi e intrecci perfetti) da Antonio Spadaro, “Dialoghi sulla fede” (La nave di Teseo, 16 euro) ci consente di cogliere il valore delle sue risposte. Al cinema ci sembra solo un regista di grido, autore di film importanti. In questo volume incalzante come pochi diventa Martin Scorsese, afflitto dall’asma da quando era bambino, in una Little Italy di New York che si manifesta ambiente spaventoso, ma grazie a qualche semplice pennellata da grande pittore. Così emerge un maestro profondo, perché lì, tra gangster, miseria e paure, come quella determinata dall’assenza dell’illuminazione pubblica, deve aver imparato davvero a conoscere i tanti volti della vita, e di ciò che li spiega.
Partito così e arrivato dove è arrivato, Martin Scorsese non ha rimosso le origini e sa quindi guardare al mondo con profondità, commozione, affetto e simpatia: e lo comunica perché è un grande comunicatore come il narratore che lo accompagna, non solo perché ha imparato la tecnica, ma perché la sua storia gli ha dato molto da dire, a partire dal tema non certo estraneo a che ha conosciuto gli ambienti della miseria, quello dalla spiritualità: «Nel suo libro Absence of Mind, Marilyne Robinson ha scritto qualcosa che per me va dritto al cuore di queste questione: “Il dato di fatto della nostra natura – che siamo brillantemente creativi e altrettanto brillantemente distruttivi, per esempio- resiste e dobbiamo fare i conti con esso, anche se usiamo la parola primati per descrivere noi stessi in modo esaustivo.” Ha certamente ragione. L’idea che qualsiasi cosa possa trovare spiegazione scientifica non mi sembra tanto ridicola quanto, invece, molto ingenua. Quando rivolgiamo la mente a considerare il mistero grande, stupefacente, del nostro mero esserci, del vivere e morire, l’idea stessa che si possa venire a capo di tutto per mezzo della scienza sembra inconsistente».
Il discorso rischia di farsi difficile quando Spadaro gli chiede cosa sia per lui, che di sé ha detto di aver vissuto sull’orlo della distruzione, cosa sia la salvezza? Assolutamente no, al contrario! E’ lo stesso incipit della risposta a dirci che a uno che sa rispondere così a domande di questo tenore non viene che voglia di dire, “ne parli ancora, per favore”. Scorsese infatti alla domanda sulla salvezza avvia la sua risposta così: « Nell’autodistruzione si nasconde un inganno: per capire la distruzione devi distruggere te stesso. E quindi in qualche modo si tratta di una forma di arroganza, di orgoglio…. E alla fine hai distrutto te stesso. Sono stato chierichetto e ho servito la messa ai funerali e nella funzione del sabato per i morti. Un mio amico era figlio di un becchino. Ho visto morire la vecchia generazione venuta dalla Sicilia all’inizio del secolo, e per me è stata un’esperienza profonda. Quindi ho meditato molto sulla mortalità, non soltanto la mia. E a un certo punto mi sono fatto un po’ male da solo. Ma poi ne sono venuto fuori, e il primo film che ho girato a quel punto è stato Toro scatenato.[…] Accettare se stessi, convivere con se stessi, sforzarsi di esercitare un influsso positivo sulla vita della gente. La ritengo una buona definizione di salvezza. […] Ma, strada facendo, si impara anche qualcos’altro. In Sfida nell’Alta Sierra, c’è una scena in cui Edgar Buchanan, un ministro ubriaco, sta sposando il personaggio di Mariette Hartley con il suo uomo, e dice: “ Voi avete avuto modo di comprendere qualcosa sul matrimonio: la gente cambia”. Questo succede in ogni relazione. […] (parla di relazioni lavorative, di collaboratori che prendono altre strade, ndr). Una volta lo consideravo un tradimento. Poi ho capito che non era così. Era soltanto un cambiamento. La parola salvezza è interessante». E prosegue affermando che nessuno saprà di essersi salvato mentre è vivo, tutto ciò che si può fare è navigare tra autocritica e accettazione di sé. Quindi è un processo continuo.
Sto ripercorrendo le prime pagine, che su Dio mi hanno portato più avanti di tanti volumi letti con sforzo, importanti certamente, ma pesanti. Qui invece ho sentito il bisogno di proseguire, quasi sentissi che lo scorrere delle pagine mi impaurisse, che il libro fosse quasi finito, mentre io non volevo. «Quando ero giovane, e servivo la messa, non c’era alcun dubbio che avvertissi un senso del sacro. In ogni caso mi ricordo che uscivo per strada dopo la fine della messa e mi chiedevo: come è possibile che la vita vada avanti come se niente fosse accaduto? Perché non è cambiato niente? Perché il mondo non viene scosso dal corpo e dal sangue di Cristo?” Se questo è stato il modo in cui ha sperimentato la presenza di Dio da giovane, poi gli è capitato, nel 1983, girando L’ultima tentazione, di andare a Gerusalemme e dover prendere anche dei piccoli aerei monomotore. Scorsese non ama volare, si capisce chiaramente che deve aver paura. Su un monomotore ancor di più. Era teso, nervoso, con in mano degli oggettini sacri che gli aveva regalato la madre, anni addietro. Visitato il Santo Sepolcro ha detto a un amico di non sentirsi diverso, solo colpito dalla geografia del luogo e dal gran numero di ordini religiosi che avevano accampato pretese su di esso. Tornato a bordo ha ripreso gli oggettini materni, ma improvvisamente ha sentito di non averne più bisogno. “Se qualcosa fosse dovuto accadere, non sarebbe più accaduto. E’ stato straordinario. E mi sento abbastanza fortunato per averlo sperimentato almeno una volta nella mia vita”. Anche chi ha un rapporto non facile con “i miracoli», qui può sentirsi in un terreno non ostile, ma amico, affettuoso, fraterno. Un ambiente nel quale ognuno può dire che ci si sente accolti perché accogliente.
Proseguendo così, tra domande e risposte, si torna alla spiritualità, e Scorsese si confessa “ossessionato dalla domanda su ciò che siamo. E questo vuol dire guardarci da vicino, guardare il male e il bene di noi. Possiamo nutrire il bene in modo che, a un certo punto, in futuro, nell’evoluzione del genere umano la violenza forse cesserà di esistere? Comunque sia per il momento la violenza è qui. E’ qualcosa che facciamo. Mostrarlo è importante. Così non si fa l’errore di pensare che la violenza sia qualcosa che fanno altri, che fanno le persone violente”.
E qui siamo al discorso che mi ha colpito di più: i violenti, i gangster, i criminali. Non c’è una parte dedicata a questo, è un discorso che viene e che va, che si affaccia e ritorna grazie al racconto della sua vita, degli ambienti e delle persone che ha incontrato, delle opere che ha creato, dei libri che lo hanno colpito. Ma questi richiami costanti mi hanno fatto sobbalzare, perché Scorsese arriva a un punto decisivo, proprio su questa violenza che ormai pervade il mondo. Chi leggerà il libro troverà altri passaggi profondissimi sulla grazia, su Gesù, sulla transustanziazione. Uno sulla transustanziazione punto lo introduco adesso, qui, perché per me è – guarda caso- il viatico al discorso sulla violenza. Come tante altre volte nel testo, Scorsese ricorda la sua infanzia: «Nel quartiere c’erano tantissime persone davvero disperate. C’era un uomo che era conosciuto come ladro di prima categoria, e lo vedevi sempre sfilare alla processione di san Rocco. Ci andava a pregare di avere la forza di rubare di più. A raccontarla sembra una storiella divertente. Ma il protagonista era un uomo così disperato da pregare Dio di aiutarlo a fare il male. Si sentiva come se non avesse scelta. Come possiamo giudicarlo? Quindi per me la transustanziazione deve avvenire fuori dalla chiesa, affinché andare in chiesa possa diventare qualcosa di più di pagare rate settimanali di una polizza assicurativa etica, per così dire. Ed è importantissimo che i laici partecipino così, trovino la loro strada per incorporare Dio nei loro cuori. Sai, mi colpisce il fatto che vediamo e sentiamo costantemente le parole “giustizia e misericordia, giustizia e misericordia”. E mi chiedo: la misericordia non dovrebbe venire per prima? Perché la giustizia può facilmente, così facilmente diventare un grido di sangue, di punizione, e sempre di più e ancora e ancora, avanti così fino alla fine del mondo. E a un certo punto, deve finire».
Non si poteva arrivare al suo grande discorso sulla violenza, sui violenti, senza passare di qui. E dunque cosa dice di così importante sulla violenza Martin Scorsese? Dice che nel suo quartiere, quando era ragazzo, un suo conoscente si presentò con una macchina. Non l’avevano mai vista dentro il quartiere. Lui, essendo un poliziotto, aveva anche un distintivo e così portava una pistola. Scorsese con un amico sale a bordo, magari si va a prendere il caffè nei quartieri alti, si dicono. Finché un’altra auto gli blocca la strada. Ne scaturisce una discussione e il poliziotto scende, mostrando distintivo e pisola. L’altro automobilista dice solo “va bene”. L’amico dice a Scorse di scendere, “questo si comporta come uno stupido”. Dopo poco quell’automobile è stata investita da una sparatoria. Scorsese ha capito di non appartenere davvero a quel posto, ma, dice “è stato difficile alzarci, andarcene e iniziare una nuova vita”.
Siamo all’esordio di un discorso straordinario, che ha qui il suo punto d’arrivo, quando riferisce di una recensione al suo film The Irishman. Tra i protagonisti c’è un certo Frank, un gangster ovviamente. Lo scrittore che ha recensito il film (una bella recensione dice Scorsese) esprime però la sua sorpresa per la preoccupazione del regista per questo Frank, per la sua anima, visto che non ci sono tracce nel film sulla sua vita interiore. Ma Scorsese obietta che il recensore manca il bersaglio: «Impariamo a conoscere la vita interiore degli altri osservando il loro comportamento esteriore e parlando con loro. Uno come Frank, tutte le persone in quel mondo, non parlano. Di nulla. La vita interiore di Frank si esprime nei suoi occhi, nelle sue pause e silenzi, nelle sue esitazioni, nel modo in cui trattiene le cose. Ma parlare? Autoesame? Quell’impulso inizia a farsi strada dentro di lui solo verso la fine. Quasi inconsciamente, quando il peso da sopportare diventa troppo. Quindi ho sentito che questo scrittore stava esprimendo un giudizio morale, e che quel giudizio implicava che alcune anime sono meno degne di preoccupazione di altre. Ma i gangster sono esseri umani, quindi non è una questione di gangster in sé, siamo tutti noi. E’ quello che noi siamo. Ovviamente è preoccupante ed è scomodo. La gente pensa: “come posso essere messo nella stessa categoria di un assassino. Sono solo gangster, sono solo tossicodipendenti, sono solo malviventi”. No. Non puoi liquidare un’intera, grande fetta di umanità in questo modo. Siamo noi!»
Poi, alla fine, arriva la sceneggiatura del film che sta pensando di fare su Gesù e che non posso riassumere. Una traccia da leggere, scoprire, capire… Un libro da non perdere!! Una grandissima operazione culturale che ha richiesto anni e che apre orizzonti.