di Antonio Salvati
Non è un esercizio irrilevante riflettere sul potere delle parole. Ciascuno di noi possiede, sia pur in maniera diversa, l’opportunità di utilizzare questo strumento potentissimo, fondamentale nella nostra comunicazione con gli altri e con noi stessi. Eppure, tante volte usiamo le parole con superficialità, convinti che dire una parola piuttosto che un’altra non abbia alcun impatto sulla nostra vita e su quella delle altre persone. Ma non è così. L’utilizzo delle parole, in forma scritta o orale, ha un suo peso. Ha un’influenza sulla relazione che abbiamo con noi stessi o con chi frequentiamo. Evidentemente con un impatto diverso per ogni persona. Le parole non sono solo parole ma trasportano simboli, significati, cultura, stereotipi, credenze, identità.
La verità è che la realtà influenza la lingua, certo, ma anche la lingua influenza la realtà, seppure in maniera quasi sempre meno diretta. Ne è convinta Vera Gheno, sociolinguista, che da tempo riflette sulla potenza della comunicazione – verbale e non – tra gli esseri umani, «rimanendone sempre affascinata». Con il suo ultimo volume Grammamanti. Immaginare futuri con le parole (Einaudi, 2024, pagg. 142, € 15), ci aiuta a comprendere come in una realtà in continua trasformazione la lingua può svolgere un compito importante: quello di disegnare un mondo, di immaginarlo, non solo di descriverlo. Le parole rappresentano una fetta importante, preponderante della nostra esperienza.
La Gheno si stupisce della bassa percezione di quanto tutto questo sia eccezionale, riferendosi dell’esistenza di una tecnologia di comunicazione «così infinitamente complessa, mutevole, caleidoscopica, eppure alla portata della nostra specie sin dai primi anni di vita, attraverso la quale possiamo comunicare, certo, ma anche acquisire conoscenza, scambiarci informazioni, esprimere stati d’animo, e perfino fare cose (come ad esempio dichiarare la nascita o la morte di un individuo, o sposare due persone)». In altri termini, è necessario ed utile essere consapevoli rispetto a tutto quello che c’è dietro al nostro parlare quotidiano. Davanti a un mondo sempre piú complesso, una conoscenza linguistica che non si limitasse alla sola grammatica potrebbe esserci d’aiuto. Del resto, già nel 1975 il noto linguista Tullio De Mauro parlava della necessità di portare un po’ di linguistica a scuola, per stimolare il pensiero metalinguistico, che cerca di rispondere a domande come perché parliamo, cosa facciamo con le parole, che cos’è una lingua, come si evolve.
Ciascuno, spiega la Gheno, possiede un “dizionario mentale” che «tiene traccia del significato di un certo numero di parole (e il numero di quelle che conosciamo è di norma maggiore di quelle che effettivamente usiamo), assieme alle regole che servono per combinare tali elementi in frasi di senso compiuto, ossia una “grammatica mentale”». Sarebbe assai problematico se dovessimo ogni volta rinegoziare un accordo sul significato attribuito alle parole con le quali definiamo le cose. Tuttavia, anche questo modo di procedere non è privo di falle: «quante discussioni nascono perché diamo un’interpretazione differente a parole importanti come “amore”, “pace”, “libertà”, “democrazia” eccetera?» Anche là dove il significato sembra trasparente, le interpretazioni possono variare. Come nel caso di woke che significa “sveglio”, “sveglia”, «ma viene usato come una definizione offensiva da chi pensa che tutte le “elucubrazioni” sul politicamente corretto siano sciocchezze. Al di là di tali inghippi, l’incredibile potenza di questo sistema è, per richiamare le parole di Wilhelm von Humboldt, la possibilità di usare in infinite combinazioni un insieme di risorse finite».
La Gheno non ha la pretesa di insegnare a parlare o scrivere meglio. E, riflettendo sulla centralità della parola nella nostra vita, avverte che la competenza linguistica non si riassume nella conoscenza delle regole. Utilizza efficacemente il paragone con la guida. Per passare l’esame della patente dobbiamo dimostrare di conoscere il codice della strada, ma se non facciamo pratica difficilmente impareremo a guidare bene. Pertanto, l’essere umano non può evitare di comunicare, e in molti casi lo deve fare tramite le parole, «che fungono da intercapedine tra noi e il mondo». Ci forniscono le chiavi di lettura di ciò che siamo come individui e come membri di una società. Ridurre la conoscenza linguistica «a mero nozionismo è un’occasione persa, nonché un atto di autosabotaggio: vuol dire negarci le competenze per comprendere questo nostro presente così diverso dal nostro passato».
Infatti, le parole cambiano anche il nostro rapporto con il tempo. Ci permettono di astrarci dal presente: «per quello che ne sappiamo, unici tra tutti gli animali, abbiamo la possibilità di richiamare il passato con il racconto (le altre specie sembrano ricordare cose, soprattutto quelle traumatiche, ma non paiono avere una piena percezione del passato) e anche di proiettarci nel futuro». E la dimensione del futuro, «con il carico di speranza che si trascina dietro», è fondamentale nella vita degli esseri umani. Abbiamo bisogno di sperare in un avvenire migliore. Durante il periodo della pandemia da Covid-19, divenne difficile pensare al futuro o immaginarlo, «tanto da far tornare in auge un tempo verbale semidimenticato come il futuro anteriore: “Quando la pandemia sarà finita…”». Era decisamente più facile immaginarsi un futuro remoto che pensare a cosa sarebbe successo l’indomani. In quei mesi di chiusura, privi di orizzonti e di futuro, la depressione ha fatto capolino nella vita di molte persone. Perché ci era stata tolta una dimensione essenziale. Se non abbiamo modo «di infuturarci, per prendere a prestito un neologismo dantesco, cioè di protenderci verso il futuro, ci godiamo meno la vita. (…) siamo animali narranti e narrati. Questo vuol dire che le narrazioni sono importanti, nelle nostre esistenze: il modo che selezioniamo, o abbiamo a disposizione, per rappresentare vicende, situazioni, fatti storici e reali, oppure fantastici, determina una differenza in come li vediamo, li percepiamo. Non possiamo, dunque, permetterci di scegliere le parole a caso».
Solitamente non ci impegniamo per dare rilevanza, curare, sviluppare al meglio una facoltà potente come quella della parola, che ci permette di fare cose incredibili. Che già possediamo semplicemente come membri della famiglia umana. Non si tratta di imparare qualcosa di riservato a pochi, di scoprire in noi un’attitudine rara, spiega Gheno. Si tratta di affinare una facoltà che abbiamo, un dono che possediamo, usandolo al meglio. «Non è un sapere esotico, o esogeno. È un sapere che è già dentro di noi. Dobbiamo solo vederlo con occhi nuovi, riconoscerlo, coccolarlo. E, al contempo, dobbiamo accettare che la comunicazione è faticosa, e all’aumentare delle differenze in gioco lo diventa ancora di piú». La lingua ha un rapporto d’amore con la vita, ne ha bisogno. Se questo rapporto si logora, o peggio ancora si spezza, piano piano la lingua inizia a morire. Come diventare grammamanti? Vera Gheno ci offre alcune indicazioni. Stimolante e vera quella che ci ricorda «che amare richiede fatica: nessuna relazione prospera se non ci si impegna a farla funzionare. Cosí, anche quella con le nostre parole deve essere curata. È una fatica che viene ripagata, perché grammamare ci fa vivere meglio. Per me, la salute passa anche dalle parole: salus per verba, per usare il latino».