di Rock Reynolds
Negli “anni di piombo” le parole capitalismo e neocolonialismo erano molto in voga. Da giovane studente, figlio di una famiglia democristiana, erano termini che faticavo a capire, soprattutto perché nessuno mi aveva insegnato che erano le due facce ineludibili della medaglia dell’Occidente. Il peccato originale non è certo il colonialismo, ma le sue conseguenze hanno una gittata talmente lunga che è impossibile prevederne la fine. Africa, Asia, Oceania e America centromeridionale sono state terre di conquista per le principali potenze europee. Gli Stati Uniti, una delle prime colonie a ribellarsi con successo alla madrepatria, hanno trasformato il “fate come vi dico ma non fate come faccio” in un mantra. Russia, Cina e altre potenze in espansione ancora hanno introiettato la lezione, trasformando a loro volta la mappa del pianeta in un giardino di casa.
Verrebbe sempre da pensare che qualche lezioncina la storia possa avercela insegnata, eppure, a giudicare da quanto successo in Ruanda in quei cento tragici giorni del 1994, di cui si è celebrata la trentesima giornata della memoria il 7 aprile scorso, l’umanità ha imparato pochissimo. Forse, però, qualcosa anzi tante cose ha appreso il popolo ruandese, oggi sulla lenta ma inesorabile via della riconciliazione nazionale.
La famiglia. Una storia ruandese (E/O, pagg 199, euro 18) di Pietro Veronese ci apre gli occhi e il cuore su uno dei momenti più tragici del secolo scorso e della storia dell’umanità: il genocidio dei Tutsi a opera degli Hutu. Lo fa attraverso le parole (da lui stesso raccolte) di un gruppo di superstiti che, per varie ragioni, hanno trovato in Italia un secondo paese. Il senso di appartenenza al Ruanda, però, non li ha mai abbandonati, spingendoli a stringersi in una “Famiglia” di cui non sono necessariamente i legami di sangue a costituire i confini bensì un anelito irrefrenabile di fratellanza dopo un orrore che pareva aver cancellato il minimo senso di umana decenza.
Mi sono trovato più volte ad asciugarmi gli occhi nel leggere i racconti che i protagonisti di questo libro fanno, a mo’ di confessione sempre più aperta, a Pietro Veronese, nonostante non ci sia nulla di nuovo, se non la sensazione di udire con i miei orecchi le loro inenarrabili vicissitudini. Alcune di quelle voci, nel 1994 erano nel pieno dell’infanzia e dovettero assistere a violenze inaudite nei confronti di familiari, amici, conoscenti, semplici estranei. Violenze perpetrate in larga parte a colpi di machete, uno strumento di morte che rese ancor più cruento lo sterminio di massa. Bambini in fuga, senza una meta e la prospettiva credibile di un domani. Bambini costretti ad assistere alla mattanza dei propri cari se non, addirittura, a prendervi parte. Bambini che cercavano riparo tra i bananeti, in parrocchia o nelle case di qualche vicino solidale. Bambini che lavavano le ossa dei propri cari riesumate dalle fosse comuni per poter dar loro una sepoltura più degna di tal nome. Bambini che dovettero crescere prima del tempo e che conobbero il tragico senso della vergogna che accompagna i sopravvissuti per una vita intera. La capacità distruttiva che l’uomo ha in sé mi atterrisce. La forza del perdono e della solidarietà mi restituiscono speranza.
La famiglia. Una storia ruandese, pur non indugiando su dettagli macabri, non può risparmiarci momenti indigesti. In quei tre mesi – in realtà, i disastri erano iniziati prima e continuarono, pur se con minore intensità, anche in seguito – il terrore era il compagno costante di milioni di persone e, una volta terminato il genocidio, le ferite dell’anima avrebbero accompagnato la vita di molti.
Leggete La famiglia. Una storia ruandese e fatelo leggere ai giovani. Nel frattempo, ecco alcune considerazioni che Diego Brasioli ha voluto fare.
Ci racconti in breve come le è venuta l’idea di scrivere questo libro…
«La scintilla è stata scoprire che c’erano tra noi, in Italia, alcuni sopravvissuti del genocidio contro i Tutsi del 1994 e che le loro voci erano del tutto inascoltate. Poi ci ho messo dieci anni».
Se la sente di ricostruire in modo rapido come si sia arrivati nel Ruanda a una contrapposizione tra Hutu e Tutsi? Per il lettore medio è difficile capirlo…
«Nessun genocidio, credo, è facile da capire. Di ricostruire in modo rapido non sono capace. Posso dire che il genocidio dei Tutsi ruandesi è il frutto avvelenato di tre ideologie esecrabili: il colonialismo (dei belgi), il suprematismo della maggioranza Hutu, il neocolonialismo (della Francia). Dico belgi e non Belgio, Francia e non francesi, perché il colonialismo è stato anche rapporto tra individui, mentre il neocolonialismo è principalmente economia e geopolitica».
Lei dice certe persone erano al tempo stesso aguzzini e salvatori. Cita un Hutu che di notte faceva i posti di blocco per trovare Tutsi e di giorno nascondeva a casa sua bambini Tutsi…
«Non sono io che lo dico, è Kagabo, uno dei nove testimoni del libro. I bambini sono tre suoi fratellini e una sorellina. Kagabo commenta con parole asciutte (non dimentichiamo che oggi è un ingegnere): “Succedeva così. Qualcuno magari proteggeva delle persone e ne uccideva altre. Dipendeva dal rapporto che c’era”.»
A un certo punto, lei dice che i soldati governativi “presero gli intellettuali, i commercianti, i funzionari pubblici”. Non le sembra un’analogia inquietante con la distruzione del tessuto pensante ordita e attuata da Pol Pot in Cambogia?
«Anche qui non sono io a parlare, ma Luc, padre Luc, il cui papà era un funzionario pubblico e venne ucciso nel 1963. L’analogia con la Cambogia di Pol Pot c’è sicuramente, come pure con il massacro di ufficiali e intellettuali polacchi a Katyn nel 1940 per ordine di Stalin, ma il contesto è diverso. In questi altri casi potremmo parlare di “intellicidio”, in Ruanda è stato un genocidio: i massacri del ’63 sono l’antecedente dello sterminio del ’94».
Com’è stato possibile che, alimentata dalla folle propaganda scatenata dalla Radio Televisione Libera delle Mille Colline, sia potuta scoppiare una simile mattanza?
«Comprendere è impossibile, conoscere è necessario (Primo Levi, Appendice a Se questo è un uomo)».
L’Occidente dov’era? Davvero del Ruanda non fregava nulla a nessuno?
«No. C’è stato chi – minoritario, ignorato – ha lanciato l’allarme, sia prima che durante. E anche chi ha invocato un intervento per fermare il genocidio. Magari sono state le stesse persone, penso per esempio all’umanitario francese Jean Carbonare. Chi ha deliberatamente guardato dall’altra parte, rifiutando di agire, sono stati i potenti, i governanti europei e americani le cui decisioni avrebbero potuto fare facilmente la differenza».
Il concetto di “Famiglia” per i sopravvissuti al genocidio è interessantissimo. Cos’è che ha fatto sì che sia nato questo tipo di nucleo di autoricostruzione psicologica che non ha uguali in altri popoli oggetto di massacri di massa, come quello degli ebrei e quello degli armeni?
«Immagino la condizione in cui si trovavano molti giovani sopravvissuti all’indomani del genocidio. Lo sgomento, lo smarrimento, la solitudine. Il loro mondo era finito, scomparso. Solo morti, macerie, abbandono. Nella loro anima sembrava vivo soltanto l’orrore che avevano appena vissuto. Non avevano aiuto, sostegno psicologico, adulti di riferimento. Trauma e isolamento. Da quel vuoto pauroso del cuore è emersa la spinta a riunirsi in “famiglie”. Non c’era altro modello disponibile e quel modello era un richiamo bello, una nostalgia potente. Perché sia accaduto lì e non altrove, all’indomani di altri genocidi, non saprei. Forse ha a che vedere con l’Africa, con la sua cultura».
Parlando con la “sua” famiglia ruandese, qual è stato l’elemento che più di ogni altro ha caratterizzato la dolorosa ricostruzione del passato?
«L’elemento che più di ogni altro ha caratterizzato la dolorosa ricostruzione del passato è stato la dolorosa ricostruzione del passato. Ho capito, anche se non posso dire condiviso, la pena del testimoniare, la necessità di farlo che sentono i sopravvissuti e al tempo stesso la difficoltà di rivivere quei momenti, il riaprirsi delle ferite. Ne avevo letto, in Primo Levi ma anche nei classici latini studiati al liceo. Sapevo che esisteva, ma non ne ero ancora stato testimone con tanta evidenza. Credo che accadrà anche ai lettori, sia pure in forma più mediata».
Ho letto che anche in seno alla “Famiglia” restava traccia della contrapposizione dei due gruppi etnici. Della serie, non sei Tutsi, non puoi farne parte. È sempre così o ci sono eccezioni?
«Credo che abbia letto male. Credo che si riferisca alle parole di Mimì, nel libro. Mimì non contesta affatto il diritto dei giovani Tutsi sopravvissuti a riunirsi e ritrovarsi solo tra di loro. Dice però che lei, negli anni della sua adolescenza, non era interessata perché “il mio mondo era pieno, e non era un mondo Tutsi”. Il suo punto di vista è differente da quello di tutti gli altri membri della “Famiglia”, in ragione – credo – della sua età. Nei giorni del genocidio aveva quattro anni. Non ha vissuto il tempo precedente, quello della discriminazione, degli insulti, delle minacce, delle aggressioni contro la minoranza Tutsi. Ha imparato a leggere e scrivere nel nuovo Ruanda, nel quale la parola d’ordine era la riconciliazione e il riferimento all’“etnia” di provenienza il colmo del politicamente scorretto. Dei suoi amici e compagni di scuola non sapeva nemmeno se fossero Hutu, Tutsi o che altro. Erano ruandesi e basta. Per gli altri membri della Famiglia è lo stesso, ma il loro passato, la loro memoria sono diversi».
L’Italia ha fatto qualcosa per quel paese? O, forse, accogliendo nelle proprie università alcuni studenti reduci dal genocidio, ha mostrato apertura?
«La cosa più grande non l’ha fatta l’Italia, ma un’italiana. Antonia Locatelli, religiosa originaria della provincia di Bergamo. Viveva a Nyamata e denunciò con forza nel 1992 i massacri dei Tutsi, chiaro segno premonitore del genocidio. Fu uccisa con due proiettili, uno alla bocca e uno al cuore. Ha sacrificato la sua vita, ha salvato molte vite non sue, rimanendo però totalmente inascoltata».
A un certo punto, lei scrive che gli articoli di alcuni giornalisti europei erano “deliberatamente fuorvianti”. In che senso?
«In alcuni, in particolare su giornali francesi, era ravvisabile l’intenzione di minimizzare l’enormità di quello che stava accadendo. Ma lo capimmo solo dopo, retrospettivamente».