di Antonio Salvati
Viviamo da diversi anni in un “mondo a pezzi”. Il mondo è attraversato da un crescente numero di conflitti che lentamente trasformano quella che Papa Francesco ha più volte definito “terza guerra mondiale a pezzi”, in un vero e proprio conflitto globale. È necessario riflettere sul nostro futuro. Il libro di mons. Vincenzo Paglia, Sperare dentro un mondo a pezzi. Conversazioni con Domenico Quirico (Torino, Sanpino Editore, 2023 pp. 152, € 16,00), ci fornisce elementi indispensabili per comprendere cosa accade dentro il nostro mondo, a partire dal tema della pace, dei poveri, degli emigranti e degli anziani.
Per Paglia e Quirico nel cambiamento d’epoca in cui siamo immersi, serve “un nuovo inizio”. Ai due interlocutori è chiaro che per uscire dal “mondo a pezzi” è necessario saper dialogare con tutti, ripartire dagli ultimi, favorire l’incontro tra popoli diversi per edificare una convivenza pacifica, contrastando quelle tensioni che portano a confliggere. Paglia e Quirico non solo conoscono appieno il dramma della guerra – il primo perché in prima linea da tanti anni sui temi del dialogo ecumenico e interreligioso e della pace insieme alla Comunità di Sant’Egidio di cui è il Consigliere spirituale, il secondo come inviato di guerra in tanti fronti – ma credono fermamente nella possibilità di costruire un mondo “fraterno”. Nell’introduzione al volume monsignor Paglia sostiene che “l’uomo “globalizzato” rappresenta la sfida più incalzante per il cristianesimo contemporaneo. Il Papa, prosegue, «lo ha ben compreso e ci ha offerto le coordinate per quella visione che dovrebbe toccare le menti e i cuori di tutti i popoli. Con l’enciclica Laudato sì ha delineato la “casa comune” di cui prenderci cura – è l’unica che abbiamo, almeno per ora – e con l’altra enciclica, Fratelli tutti, ha indicato l’unica famiglia che abita questa casa, una famiglia composta da tanti popoli, l’uno diverso dall’altro, eppure formanti un’unica famiglia sul pianeta». L’invito pressante del Papa alla negoziazione non significa cedere alla resa. Invocare incessantemente il cessate il fuoco non è schierarsi col Male. Iniziare a parlare finché si è in tempo, senza porre condizioni. Ciò evidentemente ha un costo, soprattutto per gli ucraini. Ma la pace vale di più. Un invito prudente e lucido calcolo prima di perdere tutto. La vittoria non è l’unica soluzione per ottenere la pace, ci sono possibilità intermedie. Il pericolo è tutto per gli ucraini che si stanno dissanguando senza che si veda la fine di tale massacro. La soluzione non è mai improvvisa e meccanica. Mario Giro – noto esperto di relazioni internazionali, anch’esso impegnato nella risoluzione di tanti conflitti con Sant’Egidio – ha scritto che questo nostro tempo è abitato da “trame di guerra”, ma anche da “intrecci di pace”, per cui «la guerra non è mai ineluttabile, ma è sempre una scelta politica dei leader, che può essere invertita». Su questo e altri contenuti del volume abbiamo interrogato Vincenzo Paglia.
Caro Monsignore, oggettivamente il titolo del libro dice già tutto.
Sperare in un mondo a pezzi sembra, in effetti, un controsenso. Quando qualcosa è già ridotto in pezzi, pare che non ci sia più nulla né da fare né da sperare ma solo buttare e, magari, ricominciare da capo, con un altro mondo. Ma abbiamo solo questo, di mondi. Ed è a questo mondo, a questo tempo che dobbiamo saper guardare con speranza. Se a ridurlo “a pezzi” è stato l’uomo, così l’uomo sarà capace di rammendarlo, con quella pazienza che non è accondiscendenza alle ferite, alla modestia dei limiti ma che si nutre della speranza cristiana, che ha al centro la Resurrezione, l’evento che ci dice che tutto può cambiare, che la vita può tornare. Non un cammino facile, difficile. Ma la pigrizia e l’accidia ci fanno sempre come “tradurre” difficile con “impossibile”. Che invece sono parole di senso molto diverso.
Lei giustamente segnala che ormai abbiamo sdoganato la guerra. Cosa vuol dire questo per i tempi difficili che viviamo?
Mi preoccupa molto il fatto che diminuisca il senso di tragedia e di disvalore che la parola guerra deve, invece, sempre portare con sé. Al contrario vedo e sento come molti siamo tentati dal considerare il ricorso alla guerra una strada possibile ed efficace laddove sono nati conflitti e lo scontro bellico porta distruzione e morte. Lo scoppio di una guerra, la storia avrebbe dovuto insegnarlo, dovrebbe immediatamente attivare la reazione opposta: cercare ogni strada possibile per promuovere sia una tregua sia negoziati e trattative: ad ogni costo, pur di far cessare le armi. E invece preoccupa certo linguaggio bellico e bellicoso che cresce. Come è grave che si stia tornando a far crescere in modo impressionante la spesa internazionale per le armi.
Le vicende storiche e l’esperienza degli ultimi decenni attestano che guerra chiama guerra. Qual è il ruolo che può giocare la politica in un tempo in cui la pace è stata incatenata?
Purtroppo siamo, direi, ad una sorta di “reddere actionem”: da troppi anni la parola “politica” è stata svilita, ha perso quella valenza di missione alta e profonda che invece avrebbe. Se per politica intendiamo solo il quotidiano amministrare delle piccole cose di quartiere o, al massimo, cittadine, e abbandoniamo una visione larga che sappia leggere i segni dei tempi, le vicende delle nazioni, dei popoli, interpretare le contraddizioni e individuare proposte intelligenti, il risultato sarà triste: sempre meno gente andrà a votare e nell’approssimarsi delle elezioni Europee la campagna elettorale sarà centrata non sul senso dell’Europa futura ma sulle questioni di casa nostra. Al contrario, mi pare urgente che la politica torni a porsi domande alte e complesse: cosa debba essere l’Europa, come pacificare il mondo e creare argini allo scoppio delle guerre, come aiutare le giovani generazioni, come non scartare gli anziani e integrare il Sud del mondo con la parte Nord: sfide epocali per le quali non esistono ricette semplici.
Il Censis recentemente ci ha descritto come un popolo di sonnambuli. Come risvegliare le coscienze di tanti, credenti e non, e generare una nuova utopia per la quale lottare per un mondo meno disuguale e pacificato?
Mi ha molto colpito questa espressione del Censis: sonnambuli. Mi sono chiesto perché si finisce a dormire quando si dovrebbe stare svegli. Da una parte, credo, ci si assopisce perché c’è benessere, perché in fondo molti stanno bene come stanno e il piccolo mondo in cui vivono, alla fine, credono vada bene come va. Altro sonnambulismo può invece derivare dal fatto che non si ha speranza che le cose cambino, non si crede di avere la forza di incidere per il cambiamento: e allora si rimane in disparte, senza speranza ma anche senza protesta, senza sapersi rialzare. L’immagine del sonno mi fa, ad ogni modo, pensare che ci sia bisogno che qualcuno ci svegli. Chi dorme ha bisogno di una scossa, di una voce che chiami a vivere, a essere intraprendenti, creativi. La Chiesa, col Vangelo, ha in tal senso una grande responsabilità e una possibilità enorme: i cristiani non possono dormire, restare ciechi o sonnambuli.