di Rock Reynolds
“Scontro di civiltà” è una formula inossidabile che, periodicamente, ha l’inusitata capacità di ripresentarsi più sfavillante che mai. Per qualche insondabile ragione – in realtà, il mistero si dipana facilmente, se ci di ferma a riflettere – a parlarne è soprattutto la Destra, da che mondo è mondo. Senza arrivare a dire che l’Impero Romano era di destra e che lo era pure l’Impero Ottomano, senza spingermi a sostenere che la santa alleanza crociata era di destra o che lo erano ancor più le potenze coloniali dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, è chiarissimo chi più di ogni altro abbia spinto l’acceleratore sul conflitto tra culture, solitamente quella “nobile” arroccata intorno alla croce cristiana, da una parte, e quella decisamente meno appetibile di popoli selvaggi, pagani, infedeli, dall’altra. Eppure, non sempre nel passato dell’Europa la dicotomia è stata così netta.
Più che di scontro, bisognerebbe parlare di incontro di civiltà, con mutui scambi di influenze, tra cibi che si imbastardiscono attraverso ingredienti locali, usanze comuni, stili architettonici ibridi, termini che escono da una lingua e ne corrompono gioiosamente un’altra. D’altro canto, Venezia e Istanbul vissero più in pace che in guerra e le due potenze marinare intrattennero scambi talvolta segreti per eludere le sanzioni papali. In fondo, alla Serenissima il richiamo del vile denaro era più forte del rischio di scomunica.
A dircelo con il suo saggio La rotta per Lepanto (Bottega Errante Edizioni, pagg 143, euro 16) è Paolo Rumiz, che colpisce ancora una volta nel segno, senza dover fare eccessivo sfoggio di quell’erudizione che, com’è giusto e inevitabile che sia, affiora comunque tra le righe, impreziosendo i racconti dell’autore di dettagli mai banali e ridondanti. La rotta per Lepanto è il resoconto di un viaggio vero, peraltro contraddistinto da qualche contrattempo di percorso, da Venezia a Lepanto, la località greca che più di ogni altra ha segnato nell’immaginario collettivo dell’Occidente il trionfo della croce sulla mezzaluna, della civiltà sulla barbarie.
Nell’Italia frammentata in decine di staterelli più o meno potenti, la Serenissima Repubblica di Venezia svolse un ruolo a sé stante, unico, quasi come un mondo distinto, con quel mare che la rappresentava al punto da considerarlo una sorta di estensione della sua laguna: «l’Adriatico è un canàl, come dicono a Venezia, nient’altro che il Canal Grande che continua». In quel mare vigevano regole non scritte (talvolta pure scritte) diverse da quelle di altri mari. C’erano un rispetto e una conoscenza reciproci tra la Serenissima e Istanbul che nessuna limitazione imposta dall’ortodossia cattolica avrebbe potuto soffocare fino in fondo.
Ma il Mediterraneo, in quanto grande mare quasi chiuso, ha sempre avuto in sé un forte potenziale di contrapposizione e violenza. «Gronda sangue l’Adriatico. Guerre di religione, pulizie etniche, battaglie, persecuzioni. Eppure ha assorbito tutto, è rimasto un ponte fra popoli.»
È ciò che manca in molti altri luoghi che non hanno saputo trarre dalla dannazione che le malefatte dell’uomo hanno inflitto sull’umanità un antidoto al brutto, la sana capacità di alimentarsi del bello che non manca mai, nemmeno nei momenti più foschi.
Si può tenere La rotta per Lepanto a portata di mano, tirandolo fuori dalla tasca a mo’ di vera e propria guida turistica fatta di ricostruzioni storiche, suggerimenti enogastronomici, indicazioni di luoghi da visitare: è snello e ha una copertina azzurro-verde che davvero ci ricorda certe collane di libri per viaggiatori. Grazie a una ridda di nomi leggendari, talvolta riportati in più lingue – a testimonianza della straordinaria permeabilità delle culture e della tendenza dell’Adriatico a lasciarsi andare alle maree più mescolate – in queste poche pagine troverete informazioni preziose. Località come Parenzo, Zara, Sebenico, Spalato, Trestenico, Ragusa, Durazzo, Itaca, Corfù, sono punti fermi intorno ai quali si dipana un potenziale tragitto a ritroso nella storia e nel mito.
Ma questo libro non è una guida turistica, pur assolvendo anche a tale funzione. La rotta per Lepanto racconta un mondo fatto di popoli e culture che, nonostante i ciclici tentativi di metterli in contrapposizione furente, ha dimostrato quanto le cose buone siano resilienti.
Scoprirete l’origine di nomi e usanze. Per esempio, il vento di Trieste e dell’alto Adriatico. «La bora è un vento pesante, precipita dalle montagne. Ha effetti immediati sulla psiche: esalta o innervosisce». È un nome che viene «dal mesopotamico Buriash, il dio delle tempeste dei montanari Cassiti, che scesero su Eufrate e Tigri per conquistare Babilonia. La parola “Borea”, per dire Nord, viene da là. Il veneto “buriana”, tempesta, pure.»
Nonostante la sua brevità, questo libro è un concentrato di informazioni intriganti come questa. E su ogni cosa incombe il profilo oscuro della catena montuosa che più di ogni altra in Europa ha rappresentato un baluardo all’ibridazione e un esempio vivente di quello stesso, ineluttabile processo di mescolamento intellettuale popolare. Talvolta, anzi spesso, a costo di grandi sofferenze. Non pare essere cambiato granché. «Scomparso il Turco, si sono assaliti i bosniaci musulmani, si è tirato giù il ponte ottomano di Mostar.» I Balcani ne hanno viste tante e, se non ci hanno fatto il callo, hanno comunque imparato a strizzarne l’essenza migliore. La propensione balcanica a trasformare la tragedia in farsa o a velare di drammaticità una risata la si riscontra soprattutto nel binomio alcol-musica. Una bella bevuta e una bella cantata in compagnia fanno tanto Kusturica. Prendete una «fisarmonica diatonica… ballate in bilico fra Grecia e Danubio» e in un attimo danze, canti e libagioni coinvolgono tutti in una sarabanda gitana.
Paese che vai, usanza che trovi. Eppure, quando da Oriente giunse a Venezia la sodomia, una pratica che parve prendere piede, le autorità della Serenissima corsero ai ripari attraverso un editto che permetteva alle prostitute di «mostrare più generosamente le tette». Strani questi veneziani, vero?
Chissà come l’avrebbero presa i gerarchi fascisti, per posa poco inclini ad accettare il diverso e, magari, diversissimi nell’intimità del talamo. Il modello fascista è quello che distrugge tutto. Distrugge il diverso attraverso l’idea mai fuori moda – di certo non adesso – di autarchia e sovranismo e l’invenzione della superiorità di qualcuno rispetto a qualcun altro, fingendo per giunta di crederci e finendo per trascinare nella foiba della cieca stupidità ampie porzioni della popolazione.
«Nel secolo breve, l’Italia dichiarò gli slavi “allogeni” e inventò la superiorità della razza, Poi venne ricambiata con gli interessi. I partigiani jugoslavi scalpellarono i leoni di Venezia come antenati dei fasci littori. Poi gettarono la gente nelle foibe…. Tanti non sanno che l’atroce idea venne, prima della guerra, a un ministro del Duce. La musa istriana – scrisse… Giulio Cobolli Gigli – ha chiamato foiba degno posto di sepoltura per chi minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria.»
Si rifletteva sulla ciclicità della storia e dei suoi errori tragici. Oriente e Occidente si sono sempre attratti, forse proprio perché non esistono se non nelle indicazioni dei cartografi a uso e consumo pratico, non culturale. Eppure, è lo scontro per eccellenza. In ordine, senza andare troppo in là nei millenni: la “battaglia delle battaglie”, quella di Salamina, di fronte ad Atene; il “massacro finale” dello scontro tra Roma e Cartagine, a Zama, sulle coste nordafricane; la battaglia di Azio, sotto Corfù, tra Ottaviano e Cleopatra; Malta; l’assedio turco di Vienna; l’assedio serbo di Sarajevo. E in mezzo ci sta proprio Lepanto, nell’Etolia-Acarnania.
È lì che venne combattuta una delle battaglie navali più cruente della storia, il 7 ottobre 1571, tra la Lega Santa comandata da Don Giovanni d’Austria e la Flotta Ottomana agli ordini del sultano Alì Pascià. E Lepanto è la meta finale del viaggio di Paolo Rumiz. Lepanto è poco più di uno scoglio, ma pensare che intorno a quell’affioramento roccioso l’umanità abbia lasciato in poche ore circa quarantamila cadaveri e innumerevoli feriti e naufragi per stabilire le posizioni di forza nel Mediterraneo intristisce tuttora. Uno scoglio? Tutto qui? verrebbe da dire. Si sa, il vero viaggiatore è quello a cui non preme tanto il raggiungimento della meta quanto il modo in cui ci arriva e tutto ciò che incontra nel tragitto.