di Ludovico Conti
La guerra è costantemente sotto i nostri occhi ed è oramai un elemento della nostra quotidianità. La televisione ed i giornali hanno il compito di raccontarcela e di informarci sui fatti: ma come? Cosa vuol dire raccontare la guerra oggi? Sono queste alcune delle domande alla base dell’incontro “Raccontare i conflitti tra informazione, fake news e propaganda: Afghanistan, Palestina e Ucraina”, evento iscritto all’interno del ciclo di incontri legati al Festival del Giornalismo di Siena. A portare il loro prezioso contributo giornalisti e docenti universitari come Maurizio Boldrini ma anche reporter di guerra come Lucia Goracci, Angela Caponnetto e Sara Lucaroni.
Al termine dell’evento abbiamo parlato con Sara Lucaroni, giornalista freelance e scrittrice, per farci raccontare la sua storia.
Cosa l’ha spinta a intraprendere la carriera di giornalista?
Io ho studiato a Firenze dove mi sono laureata in filosofia, però prima ancora di laurearmi scrivevo per testate locali occupandomi di cronaca locale. Quindi prima è avvenuto in qualche modo il giornalismo. A Siena scrivevo per una testata che non esiste più in versione cartacea che era “Il cittadino Oggi”. È lì che ho appreso tante cose come, ad esempio, a raccontare le storie e persone. Per diverso tempo in quel giornale scrivevo la rubrica “Il personaggio della settimana”, un lungo racconto su qualcuno che aveva fatto qualcosa in particolare ogni settimana, questo mi ha aiutato ad ascoltare.
E quando ha deciso di dedicarsi a raccontare guerre e paesi lontani?
Questo passaggio è arrivato molti anni dopo: lavoravo a Tv2000 e seguivo le primavere arabe. Mi sono appassionata al Medioriente e a quello che vi succedeva. I giovani che scendevano in piazza e chiedevano maggiori diritti, legge, libertà. È così arrivata l’occasione di mettermi alla prova sul campo. Tra la fine 2013 e 2014, quando a Malta c’erano ancora migranti che scappavano dalla Siria, andai lì, mi feci prestare una Olympus da un mio amico e incominciai a raccontare le storie per Avvenire. Facemmo uno speciale per raccontare le tre rotte delle migrazioni. Vissi un momento di precarietà, non lavorando più in televisione. Ero diventata una freelancer.
In quegli anni c’era agitazione in Iraq con l’Isis. Dopo l’invasione ed il genocidio della popolazione Yazidi mi arriva una telefonata di una persona che stava combattendo contro l’Isis. A quel punto, quando si sono create le condizioni adeguate anche per la sicurezza, sono partita. Sono entrata sulla montagna del Sinjar tramite la Turchia ed ho potuto iniziare a lavorare, vivendo con i combattenti. E’ stato il primo viaggio assoluto.
L’Ucraina prima e la Palestina sono costantemente sulla nostra bocca. Ma se un reporter freelancer andasse in altri territori di guerra come l’Africa, questi fatti interesserebbero gli editori essendo meno notiziabili?
La risposta è: dipende. Il freelancer sceglie quale storia narrare e una volta deciso si prepara molto studiando il contesto e decide il da farsi con le testate con cui collabora. Concorda i pezzi, se ne vale la pena si organizza il viaggio. Anche perché spesso per entrare in certi contesti serve una lettera di collaborazione da parte di una testata. Il lavoro del freelancer è più complesso da un punto di vista organizzativo. È un lavoro doppiamente serio. Affidi a te stesso anche la sicurezza ma chiaramente l’aspetto centrale è cosa andrai a raccontare.
Ci sono delle differenze tra il freelancer e il giornalista che lavora in maniera stabile per una testata?
Lavorare per una testata ti protegge innanzitutto dalle querele temerarie. La politica ti attacca come un avversario, tenta di screditarti dicendo che sei un pennivendolo. Noi dobbiamo lavorare sulla dignità della professione. Molte testate garantiscono l’indipendenza del giornalista, io ho collaborato con testate che portano anche notizie che non sono in cima alla notiziabilità. Ti faccio un esempio: i suicidi tra le forze dell’ordine. Non è un tema che attrae né facile, attrae solo se c’è qualche cosa di cruento o di spettacolare. Io ho sempre trovato la libertà di raccontarlo sotto tutti i suoi aspetti anche quando dovevo andare contro l’amministrazione come la Polizia di Stato per denunciare fatti che non andavano bene in quel settore. Il grosso problema sono le querele temerarie e lì dovremmo lavorare come giornalisti, sindacati, ordine, federazione. Bisogna intervenire perché è un modo che usano per intimidire la libertà di stampa. Intimidisci chi è un dipendente Rai e Corriere della Sera che hanno pure i loro avvocati, figuriamoci un giornalista che vive esclusivamente dei pezzi che riesce a piazzare ed è da solo.
Di questa esperienza come reporter di guerra se ti chiedo un ricordo positivo e uno negativo: di istinto, quali sono quelli che ti vengono in mente?
Il momento più brutto è stata la sensazione che ho provato andando in Siria, dove ho lavorato sotto copertura. Lì dovevo raccontare l’orrendezza del regime, con un visto del regime. Quando mi sono resa conto che chi mi aveva accolto sapeva perfettamente dove io poi sarei andata a scrivere e completare il mio lavoro in Libano, sapendo del mio hotel e del mio indirizzo, ho avuto la contezza che stavo rischiando. Ho scritto solo dopo quando sono tornata in Italia perché lì ho avuto paura, ho provato pericolo avendo visto cosa era in grado di fare il regime.
Il momento più bello è invece una frase che mi è stata detta, mi sono resa conto di come il mio lavoro può essere bello ed importante indipendentemente dalla tua firma. Sono state le parole di un soldato Yazida che mi faceva da scorta durante il mio viaggio nel 2015 “dopo quello che ho visto oggi tu non sei una giornalista sei una sorella” abbracciandomi in lacrime. L’ha detto perché mi aveva visto piangere per un ora e mezzo dopo aver parlato con un capo spirituale di questa comunità, a metà intervista il mio traduttore (dato che questo capo spirituale aveva un eloquio molto complesso, era difficile tradurre quel dialetto della montagna). Però, dopo che lui aveva interrotto la traduzione è successo qualcosa di strano, era come se io capissi quello che diceva. Era successo qualcosa e sono scoppiata a piangere, lo so che non è molto professionale. Il capo spirituale era un uomo tutto di un pezzo e non aveva fatto una piega, i soldati che mi scortavano invece piangevano perché sentivano che io soffrivo veramente per quello che mi stava raccontando. E quindi quando avevo fatto il cambio di scorta la sera, il soldato che mi faceva da guardia mi ha voluto abbracciare perché ci siamo trovati come fratelli.