di Rock Reynolds
È un’immagine da quadro impressionista: una persona – per lo più donna, diciamocelo chiaramente, perché le statistiche indicano che in Italia, ancor più che altrove, la lettura è appannaggio in larga percentuale del pubblico femminile – sotto l’ombrellone con un bel romanzo in una mano e una bibita ghiacciata nell’altra. Quasi sempre un romanzo giallo, quasi sempre voluminoso. Potete immaginare la mia sorpresa quando una grande e compianta noirista inglese mi confessò che i contratti per i libri si fanno proprio in base alle pagine e che il lettore medio internazionale non considererebbe “serio” un thriller – o, se preferite, un noir o un giallo – che non vanti fra le 400 e le 450 pagine. Non necessariamente perché il piacere della lettura deve durare e perché mettere troppi libri in valigia sarebbe una scocciatura – c’è chi oggi risolve il problema portandosi appresso un tablet su cui può caricare quanti più libri vuole senza appesantirla – ma, soprattutto, perché l’immaginario collettivo ha sviluppato la teoria quantomeno discutibile secondo cui un romanzo poliziesco e d’intrigo non possa essere bello se non ha una certa lunghezza. Siccome, però, gli stereotipi tendono a sfumarsi con il tempo, si può sempre sperare che l’equazione thriller lungo uguale thriller di qualità sparisca, proprio come l’ambientazione di quelle storie si è fatta via via più disparata: in passato, il giallo era inglese, il noir francese e il thriller americano. Oggi, autori di paesi sempre più esotici che legano la narrazione ai loro luoghi sono all’ordine del giorno.
Però, a chi verrebbe mai in mente di ambientare una storia fosca in Svizzera, paese associato per tradizione a pascoli verdeggianti, cioccolato al latte, orologi, ordine, banche e piste da sci? In Svizzera, si è quasi portati a dire, non può esistere il crimine e, ben prima che qualche frescone italico promettesse di abolirla, non è mai esistita la povertà. Il benessere è alla portata di tutti e chi mai sarebbe tanto stolto da delinquere? Eppure, non è così peregrina l’ipotesi che, proprio dove il denaro abbonda e il lusso pure, si annidino anche altre storture della società. Non è per caso che un parco cittadino di Zurigo, il Platzspitz, divenne, negli anni Novanta, il primo esperimento di somministrazione collettiva a cielo aperto di droga a una nutrita comunità di eroinomani, in tal modo trasformando un progetto della sanità pubblica in un vero e proprio atto di narcotizzazione di stato e in un prototipo sghembo di controllo psichiatrico globale. Insomma, la minimizzazione del danno che si fa, scusate il pessimo gioco di parole, principio sanitario statale. Per fortuna, non credo che la cosa abbia avuto seguito. Ed è pure assodato che, in un paese in cui il traffico internazionale delle armi si associa alla nebulosità delle norme in fatto di trasparenza bancaria, girino parecchi loschi figuri. Comunque sia, la contrapposizione innaturale ma alquanto intrigante tra i paesaggi alpini incontaminati e le seduzioni della finanza malata rappresenta di per sé un punto di partenza non trascurabile per chi abbia in mente di scrivere un thriller.
Il filatelista (Baldini+Castoldi, traduzione di Sergio Arecco, pagg 383, euro 20), del magistrato svizzero Nicolas Feuz, non prende spunto da scenari geopolitici internazionali né da riflessioni sull’annoso problema della tossicodipendenza nella Confederazione Elvetica. Semmai, Feuz si concentra sulle persone, creando una trama a orologeria, perno di un romanzo di suspense praticamente perfetto che ruota intorno a una sapiente costruzione dei profili psicologici dei personaggi, quasi tutti membri della polizia, quasi tutti offuscati da fragilità figlie di un passato difficile. In fondo, chi può davvero dirsi immune alle pericolose fluttuazioni della vita? Feuz lo sa bene e, con la benedizione di Joël Dicker che, sulla copertina, lo indica come uno dei suoi “autori preferiti” contemporanei, ci regala una storia estremamente fosca che, non fosse per la violenza talvolta strisciante, talvolta manifesta, sarebbe il libro ideale da portarsi in vacanza e pure un’ottima lettura per chi ha voglia di una storia leggermente più profonda.
Senza svelare nulla ai potenziali lettori, si può riassumere l’inizio de Il filatelista in questo modo: tra Ginevra e Losanna si aggira un assassino spietato quanto eccentrico e teatrale. Le sue vittime non si limita a ucciderle, ma ne preleva in vita dei pezzetti di cute per trasformarli in francobolli da apporre su pacchi che invia attraverso il sistema postale svizzero, a mo’ di tessere di un macabro rompicapo. La polizia elvetica, naturalmente, brancola nel buio e l’approssimarsi del Natale, con i cieli foschi e carichi di neve, rende ancor più preoccupante il quadro complessivo, anche perché le vicende personali di parecchi agenti coinvolti nella caccia all’uomo finiscono per manifestare zone d’ombra inquietanti e intrecci preoccupanti.
Nicolas Feuz ha ben chiari i meccanismi della suspense e fa uso frequente di colpi di scena teatrali, oltre che mischiare sapientemente i punti di vista narrativi e muoversi agevolmente fra piani temporali diversi, senza mai disorientare il lettore oltre misura. Talvolta, si ha la sensazione che l’intento di sorprendere prenda un po’ la mano all’autore, sottraendo un minimo di autenticità alla vena narrativa, ma il mio è davvero un cercare il pelo nell’abusato uovo: Il filatelista è uno splendido thriller che non mancherà di emozionare il lettore e che, per dirla con Jeffery Deaver – uno che di suspense si intende e come – finirà per “fargli sudare i palmi delle mani”.
Paradossalmente, è forse proprio la contrapposizione tra gli scenari naturali incontaminati, pressoché idilliaci delle Alpi e la presenza endemica del male nella società umana a fare da trampolino di lancio ideale per storie criminali quali quella raccontata da Feuz. Lo sa bene anche Jean-Christophe Grangé, che svizzero non è bensì francese. Il suo romanzo di maggior successo, I fiumi di porpora, è stato portato sul grande schermo con un intenso Jean Reno nei panni del protagonista e il regista crea suspense ancor prima di entrare in medias res proprio con la descrizione muta del paesaggio alpino dell’Isère, molto simile all’ambientazione de Il filatelista.
Dicevamo di Joël Dicker che, con La verità sul caso Harry Quebert, ha rappresentato uno dei casi editoriali globali degli ultimi anni, regalando lustro alla Svizzera sul piano letterario. Naturalmente, però, non è l’unico autore elvetico di noir ad aver ottenuto grandi consensi in tutto il mondo. La memoria va automaticamente a Friedrich Dürrenmatt, ormai un classico del genere ma pure della letteratura a tutto tondo. La promessa, una storia terribile che ruota intorno al barbaro omicidio di una bambina in un bosco, era stato inizialmente concepito come sceneggiatura per il film del 1958 Il mostro di Mägendorf di Ladislao Vajda. Non meno intrigato dai meandri tortuosi della psiche malata e della società incapace di darle sollievo è un altro grande autore elvetico, seppur di natali viennesi: Friedrich Glauser, salutato dal suo editore come “il Simenon svizzero”, perfettamente a suo agio tra le persone fragili di mente e inclini agli abusi da cui trasse spunto per creare le sue storie.