di Alessia de Antoniis
Luci accese in sala per tutto lo spettacolo, il ritmo serrato e il racconto particolareggiato del true crime televisivo, il coinvolgimento dello spettacolo teatrale, l’eco dei romanzi di Lucarelli e delle inchieste di Stefano Nazzi. È “Senza un motivo apparente” di e con Christian La Rosa, tratto dal libro “Omicidio in danno del dottor A.” di Sergio Anelli, andato in scena al GinesioFest. Uno spettacolo avvincente che nasce in quella Saluzzo dove immagini che le giornate si susseguano identiche una dopo l’altra, in quella provincia piemontese dove non ti aspetti che accada mai nulla.
Una sera di marzo di quasi quarant’anni fa, il dottor Amedeo Damiano rientra a casa al termine di una comune giornata di lavoro alla guida dell’ospedale di Saluzzo, in provincia di Cuneo. Appena varcato il portone del palazzo, viene gambizzato. I colpi di pistola, oltre a fratturargli il femore, lesionano anche il midollo spinale, paralizzandolo. Morirà dopo un disperato, ma infausto, tentativo di riabilitazione. Messa così, una storia come tante. Si rivelerà un cocktail di mafia, politica e sanità pubblica.
Quello che porta in scena Christian La Rosa è un testo di resistenza, di denuncia. Un teatro politico che mai come ora è urgente. “Senza un motivo apparente” è lontano da racconti strappalacrime o giudicanti, dove il mostro in prima pagina è l’unica notizia importante, dove conta la reazione esagerata di un pubblico che non ascolta ma cerca solo di far parte del tifo da stadio. La prima drammaturgia di Christian La Rosa non cerca nulla, se non la condivisione di una storia. Quello che ottiene è un fiume di emozioni: dalla commozione all’indignazione, dalla pietà allo stupore, alla rabbia.
Una storia aperta, la definisce Christian La Rosa. “L’ho voluta raccontare – mi spiega – perché è stata soffocata dal perbenismo muto della provincia. Ho pensato fosse giusto portarla in scena senza la pretesa di voler dare risposte, semplicemente per far conoscere una pagina di solitudine giudiziaria rimasta senza mandanti. Una storia dimenticata, come tante, superata dai grandi eventi altrettanto tragici della storia, da Capaci a via D’Amelio a Tangentopoli, dalla strage della stazione di Bologna a Piazza Fontana”.
Come hai avuto l’idea di questo testo?
Sono nato a Saluzzo, tutto quello che dico nel monologo è vero, non c’è niente di inventato. Durante una delle tante manifestazioni del 25 aprile, che a Saluzzo è una ricorrenza particolarmente sentita, andai a un convegno sulla vicenda di Amedeo Damiano. Leggo la storia scritta in due righe sulla presentazione.
Il figlio maggiore, Giovanni, parlava della vicenda di suo padre. Nell’ascoltarlo ho pensato immediatamente che andasse raccontata, soprattutto perché era vicino a me, era accaduta da me. Anche io, fino a quel momento, dicevo: vabbè, però quella roba lì accade nei grandi centri, da un’altra parte, non accade da noi…
Alla fine di quell’incontro mi avvicino a Giovanni e gli dico: sono un attore, voglio raccontare questa storia. Non è stato facile convincere la famiglia. C’era voglia di raccontare, ma la famiglia Damiano vive questo lutto con grandissima dignità. La raccontano nelle scuole, ma sempre con una grande e dignitosissima distanza. Giovanni raramente si lascia andare a digressioni personali: è sempre la vicenda il punto centrale. Consegnare la storia nelle mani di un’altra persona, per loro, non era facile ma hanno accettato.
Perché hai scelto un approccio cronachistico?
Perché il dato ti colpisce dritto, non lo puoi interpretare. Nelle varie riscritture ho tolto tanti dati, ma la cronaca c’è e ci deve essere, altrimenti diventa tutto simbolico. Il dato crea un paradosso strano, in cui più io ti dico le cose come stanno e più tu ti smuovi. Non dico ti commuovi, perché c’è anche chi si arrabbia nel sentire questa storia. C’è chi rimane indifferente o disgustato: anche quello è un modo di smuoversi. Però credo fermamente che l’emozione non debba arrivare da me, ma dal dato, dal fatto che questa storia è talmente potente, forte e tragica, che non ha bisogno di un supporto. Il supporto emotivo arriva perché te lo passo, non perché te lo impongo.
Ed è lì, secondo me, che sta la forza di questo esperimento. C’è una persona che poteva veramente essere stata uccisa per un caso, una tragedia come tante, e un coperchio che viene alzato e che ha aperto un altro coperchio; fatti che si incrociano e che fanno emergere un sotto che viene fuori grazie ai dati. Non a caso non ho preso un punto di vista; non ho scelto di interpretare uno dei personaggi della vicenda, ma di raccontare la storia. Una storia molto più complessa di quello che vi faccio ascoltare.
Il punto è: adesso è roba anche vostra. Se volete, andate ad approfondire, raccontatela, pensateci, rifletteteci. Adesso è una storia che appartiene a tutti noi. Ora c’è una persona in più che la sa. A me questo interessa. È un pezzo di muro di omertà in più che è venuto giù.
Con tanti programmi tv che si occupano di crime, come reagisce il pubblico?
Ieri sera, in prima fila, vedevo la gente piangere. Uno spettatore è venuto dietro le quinte, in lacrime, dicendomi: “grazie, dimmi solo come si chiamava il dottor A.” E poi piangendo è andato via. Non so perché avesse il bisogno di sapere il nome, quali corde io abbia fatto risuonare in lui. Magari ha un’esperienza in qualche modo simile.
Mi è capitato, dopo una delle prime volte che ho fatto questo testo, di essere contattato da uno dei tre condannati. Voleva leggere il testo; voleva capire come parlavo di lui; vedere come ne usciva la sua immagine pur da bandito. E questo è pazzesco: per lui era una questione di immagine. Nelle settimane successive andavo in giro per Saluzzo e avevo paura. La paura nasceva dal fatto che avevo rotto un tabù: mi ero preso la responsabilità di raccontare fatti realmente accaduti senza un filtro.
A parte San Ginesio, dove l’hai già portato in scena?
Soprattutto in Piemonte, nelle scuole, e devo dire che la storia interessa, piace, c’è una bella attenzione. Ho fatto una prima a Saluzzo con le autorità in prima fila: durante il racconto si alzavano e andavano via. Dirigenti dell’epoca dell’ospedale, amici, conoscenti di, medici che lavoravano nell’ospedale di Saluzzo: io li ho visti andare via.
Le reazioni sono differenti, ma è proprio quello il punto. C’è lo spettatore che si commuove o si indigna; quello che ti viene a dire: pesante la storia, troppi dati, troppi casini, non capisco. Però noi dobbiamo riabituarci alla complessità. Non possiamo avere un’attenzione da YouTube, altrimenti il teatro cosa fa?
C’è bisogno di teatro civile?
Per me sì. C’è bisogno di memoria, di tramandarsi informazioni, storie, notizie. Oggi non tramandiamo più la memoria: diamo comunicazioni spot che il giorno dopo ti sei dimenticato. Mancano le radici.