Letterato e uomo d’impegno a tutto tondo, Leonardo Sciascia ha scritto anche per il teatro. In realtà, ogni suo testo – romanzo, racconto, pamphlet che sia – ha in germe una dimensione drammaturgica, e metterlo in scena è una sfida affascinante. È ciò che fa da anni il regista e autore Fabrizio Catalano, nipote del grande scrittore siciliano: Il giorno della civetta, Todo modo, A ciascuno il suo rivivono sulle assi del palcoscenico.
Giovedì 5 dicembre, per iniziativa della Fondazione Leonardo Sciascia e produzione della Laros di Gino Caudai, sarà la volta de La Scomparsa di Majorana. Con scene e costumi di Katia Titolo, musiche di Fabio Lombardi, luci di Marcello Mazzocco, Catalano dirigerà Loredana Cannata, Alessio Caruso, Giada Colonna, Roberto Negri.
Lo spettacolo è reduce da una pluriennale tournée fra Italia, Canada, Serbia e Polonia, e verrà rappresentato per i detenuti della casa circondariale “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento. Immaginiamo che lo scrittore di Racalmuto sarebbe stato ben lieto che le sue parole risuonino in un luogo dove più si avverte il bisogno di ideali per i quali si batté in vita: libertà, giustizia, verità, ragione.
Scritto nel 1975, La scomparsa di Majorana è un testo ibrido, tra pamphlet e narrativa gialla, nato da un fatto di cronaca occorso nel 1938: la sparizione del giovane e brillante fisico siciliano. È lodevole che in un’epoca di vuoto valoriale e sfaldamento dell’etica, deriva delle scienze e neoliberismo sfrenato, si rievochi una figura quale quella di Majorana che, probabilmente, fu tra i primi ad intuire il potenziale distruttivo di un’arma nucleare, decidendo di farsi da parte e non esserne partecipe. Questa, almeno, è la tesi proposta da Sciascia, che con le opere, le riflessioni, il suo specchiato condursi in un mondo disumano ci ha lasciato un insegnamento: l’uomo non può privarsi di una dimensione morale, della ricerca inesausta della verità, dell’amore per gli altri e per l’arte.
Lo spettacolo è allestito come un’indagine poliziesca, ma anche come un sogno (un incubo?) ad occhi aperti, in un lucido amalgama tra realismo e simbolismo: una notte d’agosto del 1945, nel caos della guerra civile che prosegue pur dopo la fine del conflitto, un ospedale, una ex partigiana, un misterioso uomo ferito. Un enigma da sciogliere e da godere, riflettendo su temi eterni. Abbiamo intervistato il regista, Fabrizio Catalano.
Quali sono state le maggiori difficoltà, le scelte drammaturgiche per la messa in scena di un testo complesso come La scomparsa di Majorana?
Paradossalmente le difficoltà sono state più intime che tecniche. Benché il libro di Sciascia, nella sua struttura complessa e articolata, abbia essenzialmente le caratteristiche di un saggio e di un pamphlet, l’assetto narrativo di questo spettacolo si è imposto in maniera abbastanza rapida nella mia mente. Ho provato a calare il dramma di questo scienziato giovane e geniale – che probabilmente aveva visto prima di tutti la strada che conduceva alla bomba atomica, rifiutandosi d’imboccarla – in un contesto simbolico ma riconoscibile: tutto si svolge in una notte d’estate del 1945, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Un mondo in cui l’entusiasmo per la rinascita nasconde già i germi delle derive che si verificheranno nei decenni successivi e di cui oggi constatiamo gli effetti. È stato invece molto più arduo farsi carico della solitudine e dell’incapacità – o della legittima mancanza di volontà – che Majorana mostrava nel non volersi adattare alle “regole della società”: alla competizione, alla piaggeria, alla disintegrazione dell’etica prima ancora che dell’atomo.
Ha seguito un particolare metodo per rendere credibili i personaggi di quello che potrebbe essere considerato un dramma storico?
Ritengo che per fare del buon teatro – o del buon cinema – si debba rimanere in equilibrio sul crinale tra realismo e simbolo. Caratteri e comportamenti dei personaggi devono essere plausibili, ma tutto deve andare oltre il quotidiano, deve vivere anche in una condizione metaforica, deve parlare a diversi contesti umani. Rappresentiamo questo spettacolo da anni: non l’abbiamo messo in scena solo in Italia, ma anche in Canada, in Serbia, in Polonia, perché è una vicenda che tocca alcune di quelle corde dell’animo umano che le nostre società agonizzanti vorrebbero spezzare. In ogni personaggio di questa pièce, lo spettatore più riconoscere tanto le proprie aspirazioni che le proprie debolezze.
In che modo ha voluto sottolineare l’attualità del tema affrontato da Sciascia?
L’idea di questo adattamento teatrale nasce nel 2017; lo spettacolo va in scena dal 2019. In questi anni, abbiamo avuto numerose e agghiaccianti dimostrazioni di come spesso la scienza non abbia un’etica. In più, il pericolo nucleare è diventato un angoscioso epicentro dell’attualità. Nella pièce si parla di tutto questo, ma dentro la struttura di un genere, il giallo, peraltro molto caro a Leonardo Sciascia. Non un giallo tranquillizzante, come quelli che troppo spesso si scrivono e si filmano oggi, ma un intrigo notturno, con cui ci auguriamo di scuotere le coscienze.
Che messaggi si propone di trasmettere con questa rappresentazione? Quali le sue aspettative?
L’Europa si sta sfaldando mentre noi ci imbamboliamo davanti al cellulare. La gente tende ad omologarsi, a non farsi domande, ad accettare passivamente lo stato delle cose, a reputare lecito compromettere la propria morale e la propria etica. Ma a tutto questo si può ancora dire no. Come ha fatto Ettore Majorana. Come ha fatto Leonardo Sciascia.
C’è qualche scena, qualche passaggio che l’ha particolarmente appassionato nella realizzazione dello spettacolo?
In verità, ciò che più emoziona di questo spettacolo è che tutti noi che ci lavoriamo, quando rispondiamo alle interviste, tendiamo a utilizzare la prima persona plurale, e non la singolare: crediamo in ciò che facciamo e abbiamo creato una squadra spinta dall’amore per la verità.
Qual è l’insegnamento più alto, artistico ed umano, che le ha lasciato Leonardo Sciascia?
Credere che le idee muovano il mondo ed essere disposto a lottare per affermarle. E oggi è ancor più difficile. Viviamo in un tempo dominato dall’omologazione, dalla banalizzazione, dall’ottusità. Abbiamo accettato passivamente un sistema economico e sociale di matrice anglogermanica e protestante, fatto di rapacità e ipocrisie, basato su distruzioni, cancellazioni e genocidi, contro cui abbiamo il dovere di lottare. Ognuno di noi ha il dovere – prima ancora che il diritto – di aspirare alla libertà e alla giustizia. Ad essere un cittadino e non un consumatore. Ad avere delle opinioni personali e a non aver paura di esprimerle. In fondo, Sciascia – come Pasolini e altri grandi uomini del ‘900 – corrisponde in pieno all’assurda definizione odierna di “complottista”. Ma i complotti esistono. In verità, la storia del genere umano è anche un susseguirsi di complotti. Ai quali – appunto – abbiamo il dovere di opporci.