di Rock Reynolds
Si stava meglio quando si stava peggio? Di cestisti che, con un misto di nostalgia patetica e arroganza malcelata, si abbandonano a dichiarazioni del tipo «Ai miei tempi, si giocava un basket di qualità superiore. Quando ero un giocatore professionista, certi difensori arcigni non ti avrebbero mai consentito di passarla liscia dopo una buffonata a uso e consumo delle telecamere, anzi, non te l’avrebbero nemmeno fatta fare» ce ne sono parecchi. Il grande lungo croato Dino Radja dice che preferisce «guardare Olympiacos contro Panathinaikos o Barcellona contro Real Madrid che una partita NBA». Il leggendario allenatore Dan Peterson sostiene che il tiro da tre punti ha distrutto la pallacanestro e, in particolare, ha peggiorato il basket NBA. Forse, ma il tiro da tre comunque lo devi mettere e non è che sia una cosa tanto semplice. Molte star del passato liquidano la pallacanestro NBA di oggi come un gioco poco interessante. Insomma, l’epoca andata del basket professionistico, l’era di Michael Jordan e, prima di lui, Julius Erving e poi Larry Bird e Magic Johnson aveva davvero una marcia in più?
La domanda è quanto di più retorico possa esserci, ma, per chi ama questo sport e si è accostato allo spettacolo fornito dalla più grande lega professionistica del mondo, la sensazione che qualcosa sia andato irrimediabilmente perduto è forte.
Magic Johnson, la vita (66THAND2ND, traduzione di Lorenzo Vetta, pagg 682, euro 25) racconta l’esistenza straordinaria di uno sportivo straordinario, un uomo che da diverse cadute rovinose ha saputo rialzarsi più forte di prima.
Forse è bene mettere subito una cosa in chiaro: quasi settecento pagine fitte per ricostruire il percorso umano e sportivo di Earvin “Magic” Johnson richiedono un impegno non indifferente a chi non sia super appassionato di sport americano. Ma Magic Johnson, la vita di Roland Lazenby (già autore delle biografie di Michael Jordan e Kobe Bryant) ricostruisce pure uno spaccato di società americana in rapida trasformazione, quella degli anni Ottanta, in pieno edonismo reaganiano, mettendo in evidenza come il ruolo di atleti di colore – con Magic Johnson in testa – abbia gettato ponti e superato pregiudizi che hanno finito per rappresentare traguardi impensati prima del loro avvento.
Originario di Lansing, capitale del Michigan e città indissolubilmente legata all’industria automobilistica e ai suoi alti e bassi, Earvin Johnson è figlio di una famiglia afroamericana che rappresenta la voglia di riscatto di una comunità molto nutrita. Non certo ricchi ma nemmeno poverissimi come molti concittadini di colore, i coniugi Johnson fornisono un’educazione improntata al rispetto, al senso del dovere, al lavoro e all’impegno sociale ai figli, rappresentando un vero e proprio faro di distinzione e un’isola di riferimento per il vicinato. Insomma, amore e protezione non mancheranno mai al giovane Earvin, la cui statura e il cui talento sportivo crescono di pari passo fin dalla più tenera età.
La storia della parabola quasi incredibile di questo ragazzone nero del Midwest è cosa nota, a partire dalla sua leggendaria vittoria nel torneo NCAA con la squadra universitaria di Michigan State contro nientemeno che Indiana State di quel Larry Bird con cui Magc intreccerà buona parte del suo percorso sportivo. La rivalità nata sul parquet di Salt Lake City, dove si svolgono le finali, caratterizzerà un decennio di campionati NBA, contrapponendo due modi diversi di intendere lo sport – forse la vita stessa – di due individui – uno bianchissimo e l’altro nerissimo, eredi di due tradizioni sociali tutto sommato non tanto lontane – e delle due coste, quella atlantica e quella pacifica, delle città di Boston e Los Angeles e, in ultima analisi, dell’America bianca e di quella di colore. Ma la presenza di valori saldamente evangelici in entrambe le famiglie e pure il senso di rivalsa – nel caso di Magic per aver infranto tabù razziali e di Bird per aver superato la tragedia del suicidio del padre – dimostreranno di avere in sé elementi di unione più che di avversione reciproca. E il coronamento di tale progressivo avvicinamento tra le due icone del basket NBA che solo l’avvento di un certo Michael Jordan avrebbe oscurato sarà la nascita del leggendario “Dream Team” (con la presenza delle due star ormai sul viale del tramonto e dell’astro più che nascente dei Chicago Bulls), vincitore dell’oro alle Olimpiadi di Barcellona nel 1992 e alfiere galattico del marchio NBA nel mondo, una vera trovata promozionale geniale per la dirigenza della lega. La rivalità tra Johnson e Bird si trasformerà nel tempo in un rapporto di reciproca stima e, addirittura, amicizia, con un mitico pranzo a casa Bird in cui la madre di Larry confesserà a Magic che è lui il suo giocatore preferito.
Ma non sono certo gli aneddoti, peraltro numerosissimi e spesso succulenti, a fare di Magic Johnson, la vita una lettura intrigante. Certo, la dote della sintesi non è forse quella che nel ventaglio delle qualità di Roland Lazenby si faccia notare con più forza, ma, se davvero volete comprendere certi passaggi della carriera di Magic, a partire dalla nascita di tale soprannome, Magic Johnson, la vita fa al caso vostro. Così come se vi interessa saperne di più sul termine “Showtime” coniato dal padrone dei Los Angeles Lakers, unica squadra in cui Magic abbia militato dal suo ingresso nell’NBA. Infatti, il rapporto speciale instauratosi tra Jerry Buss, il nuovo proprietario della franchigia, e Magic, astro nascente di una NBA in rapidissima trasformazione, trascende una normale relazione professionale, sconfinando in un legame putativo tra padre e figlio come pure tra compagni di merende. Leggendarie sono le loro uscite a tarda notte nei locali più alla moda di Los Angeles, dove il ricco proprietario dei Lakers è solito presentarsi ogni volta insieme a una splendida ragazza nuova e all’amico star del basket.
Oggi, la stampa certi comportamenti con ogni probabilità li massacrerebbe e i social media ne farebbero polpette. Ovunque lo Showtime si spostasse, c’erano torme di ragazze giovani, belle (per non dire procaci) e disponibili che non vedevano l’ora di orbitare intorno ai Lakers, soprattutto intorno a Magic, aitante, atletico, ricco, a sua volta giovane e dotato di un sorriso naturale che ne faceva il perfetto cocco di mamma. Addirittura, pare che Jerry Buss avesse un assistente personale la cui mansione primaria era scremare tra le belle figliole a cui non sarebbe dispiaciuto conoscerlo meglio. Un comportamento inammissibile per gli standard di oggi? Certamente. Un insopportabile sfoggio di paternalismo maschilista? Pure. Così va spesso il mondo. Così andava negli scintillanti anni Ottanta e così, tutto sommato, continua ad andare. Basti pensare alle coppie paparazzate a ogni piè spinto che mettono in primo piano questo calciatore e quella velina. Al tempo, forse, quello spettacolo non certo edificante era ancor più plateale, ancor meno velato. La paura del contagio da HIV non aveva ancora affondato i denti nelle coscienze delle persone e il riverbero ritardato della rivoluzione sessuale restava un forte anestetico.
L’annuncio dato in diretta planetaria dallo stesso Magic Johnson della propria sieropositività all’HIV nel 1991 fu al tempo stesso uno shock, una confessione e un dramma collettivo. Ammettere di aver condotto uno stile di vita sessualmente rapace e di averlo fatto senza protezioni non sarebbe una scelta facile per nessuno e certo non lo fu per quel ragazzo dal sorriso travolgente che, anche grazie alla vicinanza di una moglie adorante, sarebbe riuscito a riprendere le redini di un’esistenza alla deriva e a ridare lustro a un’immagine compromessa, trasformando macchie e sensi di colpa in una base solida su cui costruire un nuovo impero economico, al tempo stesso fungendo da testimonial impagabile per la lotta universale all’AIDS e per comportamenti sessuali più responsabili.
Perché la «vera grandezza, così rara, è immune al tempo che scorre.»