di Cinzia Mescolini
Nell’immaginario comune, la biblioteca è percepita come un luogo polveroso in cui si rifugiano studiosi intenti a esplorare mondi distanti dal vivere quotidiano. Una sorta di torre d’avorio, insomma, destinata a una minoranza di intellettuali legati a un universo in estinzione fatto di libri di carta, per molti destinato a scomparire sotto i colpi di nuovi social, AI e metaversi.
A chi e a cosa potrebbe mai servire oggi una biblioteca, ovvero un luogo in cui sono conservati dei libri? A nessuno, certo, se non a pochi romantici in cui alberga ancora l’idea di biblioteca pubblica come luogo di accesso alla conoscenza per tutti, in chiave democratica. Forse, anche il ricordo struggente del primo incontro tra Oliver e Jenny di “Love Story” di Erich Segal.
Oltre il “romantico sentire”, proviamo a riposizionare la questione in altri termini, a partire dal ruolo stesso della biblioteca pubblica nella società contemporanea. E come per ogni “riposizionamento” corretto, occorre iniziare dalle definizioni.
La biblioteca pubblica può essere definita un servizio locale che sostiene la democrazia offrendo occasioni di apprendimento lungo tutto l’arco della vita. I suoi scopi sono l’istruzione e l’informazione, sulla base dei quali si delinea una duplice anima: luogo per l’istruzione formale e informale − in cui rientrano le attività culturali, artistiche e di promozione alla lettura − e centro di documentazione per la comunità.
L’elemento caratterizzante consiste nell’assoluta libertà individuale di avvalersi dell’offerta con tempi e modi congeniali a ciascuno. Ciò determina che la crescita culturale si configuri quale esito di un atto volontario, di volta in volta deliberato, a differenza di quanto avviene nella scuola o in altre agenzie formative, senza obblighi, pressioni esterne o vincoli temporali.
Questa caratteristica di spazio aperto alla formazione, all’informazione e allo svago, rende la biblioteca pubblica un luogo di incontro e di aggregazione sociale in grado di incidere sulla qualità della vita del cittadino e sullo sviluppo stesso della democrazia.
Definita «piazza del sapere» da Antonella Agnoli, rientra inoltre nel concetto di sfera pubblica delineato da Jürgen Habermas, in quanto luogo della società civile dove si acquisiscono le informazioni necessarie al dibattito democratico e al formarsi dell’opinione pubblica.
Si torna così all’idea di luoghi “pubblici” dotati di una dimensione umanizzata, di condivisione, che i social, in quanto “non luoghi” (per usare un’estensione digitale del concetto di Marc Augè), non sono assolutamente in grado di sostituire.
Si pensi alle biblioteche aperte d’estate, quando anziani e fragili rischiano la morsa della solitudine e dell’abbandono, tanto per citare una funzione sociale di base che la biblioteca potrebbe avere.
A fronte della dimensione “liquida” del digitale (Bauman), in cui lo spazio informativo, culturale e sociale risulta frammentato, il “luogo” biblioteca restituisce senso alla conoscenza e al vivere comunitario tramite la mediazione umana, l’incontro e il confronto.
La stessa contaminazione tra supporto cartaceo e digitale diventa fruttuosa, in barba alla diatriba tra apocalittici e integrati che si trascina, assumendo toni e definizioni diverse, dai tempi di Umberto Eco.
Considerando i recenti dati Censis (58° rapporto sulla situazione sociale del Paese) resi noti il 6 dicembre 2024, l’impoverimento culturale appare decisamente allarmante. Quasi due persone su dieci credono che Mazzini sia stato un politico della prima Repubblica, mentre per il 32 per cento della popolazione la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto.
Ricercare le cause di questa drammatica situazione nell’inefficienza della scuola aprirebbe un vaso di Pandora che qui risulterebbe fuorviante. Certo è, e lo sa bene chi a scuola insegna, che la cultura non è più un valore socialmente rilevante, pertanto l’apprendimento non risulta più essere un processo a cui i giovani sono motivati e, si sa, senza motivazione non è possibile sedimentare conoscenza.
Cosa ha a che fare tutto questo con la biblioteca? Le sue potenzialità come luogo di apprendimento informale, svincolato da obblighi di tempo (se pensiamo ai tempi scuola sempre più vicini alle otto ore lavorative) e legato al piacere di conoscere e di incontrarsi, potrebbero contribuire a ricostruire la cultura come valore.
Infine, per fugare ogni sospetto sul fatto che chi scrive sia soltanto un’inguaribile romantica scevra di senso della realtà, si citano ben due economisti, entrambi premiati con il Nobel: Amartya Sen − secondo il quale l’informazione rappresenta un bene necessario alla democrazia − ed Elinor Ostrom, la cui teoria dei beni comuni si presta alla riformulazione in una chiave attualizzata del concetto stesso di biblioteca pubblica quale «istituto della democrazia».
Se in termini di “digitale” la documentazione (non l’informazione, sia chiaro) in rete ad accesso aperto rappresenta un bene comune libertario che le stesse biblioteche potrebbero rendere fruibile per tutti, in un’ottica più ampia la biblioteca pubblica sembra chiamata a svolgere un duplice ruolo.
Il primo, di rilevanza culturale, come «area protetta dei beni comuni della conoscenza». Il secondo, di valore sociale, in quanto possibile «catalizzatore di beni comuni associativi» nell’ambito della società civile.
Tutto questo in una chiave economica della conoscenza intesa come bene comune non soggetto a esaurimento ma che, nell’uso e nella diffusione, trova un moltiplicatore esponenziale, in grado così di incidere sulla qualità della vita e dunque nella dimensione del quotidiano.
E allora, concludendo, non possiamo che augurare lunga vita alle biblioteche con le parole squisitamente romantiche (quanto vere) di Marguerite Yourcenar: «Fondare biblioteche è come costruire granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi mio malgrado vedo venire».