Vendere il patrimonio pubblico: sì o no?
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Vendere il patrimonio pubblico: sì o no?

L’impresa di vendere gli immobili per ridurre il debito pubblico italiano è stata tentata molte volte nel corso degli ultimi anni. Ecco perché e cosa occorre fare.

Vendere il patrimonio pubblico: sì o no?
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13 Luglio 2012 - 16.32


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di Giuseppe Maria Pignataro

L’impresa di vendere gli immobili per ridurre il debito pubblico italiano è stata tentata molte volte nel corso degli ultimi quindici anni ma, tranne in alcuni casi, gli insuccessi hanno prevalso.
Gli ostacoli incontrati sono stati:

– scarsa collaborazione da parte degli enti proprietari;

– vincoli storici e artistici;

– reperimento della documentazione tecnico-legale;

– veti incrociati tra enti;

– procedure burocratiche molto pesanti e farraginose;

– assorbibilità da parte del mercato.

Le varie iniziative poste in campo possono essere così sintetizzate.

Il governo Prodi nel 1998 per procedere alla dismissione dei beni immobiliari dello Stato istituì una commissione presieduta da Giacomo Vaciago: a fronte di una previsione di incasso di 1.000 miliardi dopo due anni di attività ne furono introitati solo tre.

Il governo Berlusconi, ministro del Tesoro Tremonti, provò con le cartolarizzazioni immobiliari denominate Scip 1 e Scip 2 negli anni 2001 e 2002. Anche questo risultato è stato nel complesso non poco deludente.
Nell’operazione Scip 2 a fronte di un patrimonio di 10 miliardi di euro ceduto a un prezzo di 7,8 miliardi circa, il processo di vendita non si è sviluppato come previsto dal piano di dismissioni e la società ha incassato solo 3,6 miliardi. Il Mef è stato costretto a intervenire più volte ristrutturando l’operazione e rifinanziando le scadenze delle obbligazioni emesse.

Da ultimo nell’ambito del DL 207/2008 sono state poste in liquidazione le due società Scip e la proprietà degli immobili ancora invenduti è stata ritrasferita agli stessi enti che li avevano inizialmente ceduti. Lo Stato ha quindi dovuto rimborsare i debiti del veicolo Scip 2 ancora in essere per 1,7 miliardi di euro circa vanificando buona parte del beneficio iniziale in bilancio e gli enti hanno riacquistato immobili per un controvalore di 1,7 miliardi di euro circa. In proposito la Corte dei Conti (Giudizio sul Rendiconto Generale dello Stato 2008 – Memoria del procuratore generale) ha sentenziato: “Non può però sottacersi che siamo in presenza della conclusione anticipata di un ambizioso progetto rimasto incompiuto, che ha conseguito risultati più che modesti”.

Nel 2004 il Mef ha costituito il Fondo Immobili Pubblici nel quale sono stati conferiti immobili a uso non residenziale occupati principalmente dal Mef e da enti previdenziali e statali per complessivi 3,3 miliardi di euro. L’orizzonte temporale di vendita era stato stimato in circa 10/12 anni e le attività procedono anche in una situazione di difficoltà, data la situazione attuale del mercato. La principale finalità era quella di fare cassa subito, obiettivo pienamente centrato tramite un finanziamento per 1,6 miliardi. L’altra finalità era quella di ottimizzare gli utilizzi degli spazi tramite la drastica riduzione della superficie occupata. Quest’ultimo obiettivo è stato quasi del tutto disatteso. L’operazione pertanto che per risultare bancabile contemplava un canone di locazione garantito dall’agenzia del demanio (8% circa) si sta rivelando gravosa per lo Stato.

Un autentico flop è stato quello della Patrimonio dello Stato Spa. Questa società istituita con legge 112/2002 con l’obiettivo di valorizzare e monetizzare il patrimonio dello Stato non è riuscita a svolgere la sua missione e nel luglio 2011 con legge 111/2011 ne è stata prevista la messa in liquidazione. Patrimonio dello Stato ha posto in essere alla fine del 2005 una sola operazione, il Fondo Immobiliare Patrimonio Uno, al quale sono stati apportati immobili a uso ufficio locati a pubbliche amministrazioni (in particolare il Demanio) per un ammontare di 723 milioni di euro con un orizzonte di vendita di 12 anni.

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Sono poi intervenuti vari provvedimenti legislativi (L. 410/2001, art. 84 legge finanziaria 2003 e art. 58 L. 133/2008) finalizzati a incentivare la vendita del patrimonio degli enti territoriali, ma anche questi hanno prodotto pochi risultati di rilievo. Non sono mancati tuttavia alcuni esempi virtuosi come Scip 1, la dismissione del patrimonio delle Asl della Regione Lazio e quella degli ospedali della Regione Liguria.

Oggi peraltro la situazione è molto più complessa per le seguenti ragioni:

– il canale della liquidità derivante dal credito bancario nel settore del real-estate di fatto è stato quasi del tutto prosciugato per i rischi elevati che il settore presenta;

– nel settore non residenziale, il calo del 2011 rispetto alla media del transato degli anni precedenti è superiore al 50% e il mercato totale delle transazioni si è ridotto a valori assai modesti, solo poco più di 400 milioni sono stati transati nel primo trimestre del 2012 su tutto il territorio nazionale;

– i mutui alle famiglie a fronte della compravendite di immobili residenziali è crollato nel 2012 di oltre il 47% e una flessione consistente era già stata registrata nel 2011;

– in prospettiva il mercato immobiliare è visto in ulteriore flessione ed anche per questo le transazioni si sono rarefatte e non si prevedono cambiamenti di prospettive nel breve periodo.

Ciò stante, per affrontare in modo costruttivo ed efficace il tema della dismissione del patrimonio pubblico è fondamentale in primo luogo dare delle risposte a dei quesiti di cruciale rilevanza:

– qual è lo scopo che ci poniamo?

– Qual è il perimetro su cui vogliamo intervenire e qual è il valore che vorremmo realizzare?

– Cosa ci consente di fare il mercato rispetto agli obiettivi che vogliamo perseguire?

In un contesto in cui il punto focale su cui concentrare gli sforzi del Paese è senza dubbio l’abbassamento del fabbisogno finanziario dello Stato per ridurre la vulnerabilità alle turbolenze dei mercati e recuperare la fiducia degli investitori, lo scopo da perseguire non può essere diverso da quello di ridurre lo stock di debito in misura adeguata alle necessità di migliorare sensibilmente la percezione del rischio dei mercati.

Una impostazione distonica rispetto a questo risultato sarebbe inutile o controproducente.
Poiché il volume di debito da redimere per conseguire risultati realmente utili al nostro Paese, nella situazione in cui siamo caduti, si attesta sui 300-400 miliardi di euro, appare evidente che ogni operazione che si traduce in piccole iniezioni di liquidità, come quelle cantierizzate con il decreto sviluppo, sono prive di senso logico anche in quanto potrebbero essere vanificate da piccoli movimenti dei tassi di interesse sul debito, tenuto conto che ogni dieci punti base di spread in aumento vale a regime, sull’intero stock di debito, circa 2 miliardi di Euro di maggiori oneri a carico del bilancio statale.
Per quanto concerne il terzo quesito, come abbiamo già detto, il mercato immobiliare oggi è del tutto asfittico e le tassazioni recenti lo hanno totalmente depresso lasciandogli speranze di ripresa prossime allo zero.

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E’ evidente pertanto che in queste condizioni proporre la vendita diretta del patrimonio pubblico per abbassare una quota consistente del debito pubblico equivale a parlare del sesso degli angeli.
Del tutto prive di fondamento appaiono anche le proposte di coloro che vorrebbero risolvere il problema della riduzione del debito con dei contenitori (Fondi o Società veicolo) dove far confluire il patrimonio per fare cassa attraverso suggestivi prestiti forzosi o fantasiose offerte pubblico di scambio tra quote di fondi e Btp.

Anche se i fondi immobiliari ad apporto pubblico si sono rivelati i migliori strumenti per valorizzare e dismettere il patrimonio chi presenta queste proposte non considera che:

– Il censimento, l’analisi tecnico-legale e la valutazione di un patrimonio pubblico da destinare ad una operazione di riduzione del debito pubblico, di qualche centinaia di miliardi di Euro, richiede un tempo non inferiore, in una ipotesi ottimistica, a 24/36 mesi; uno spazio temporale incompatibile con le cogenze che la situazione richiede;

– si tratta di attività propedeutiche imprescindibili per realizzare un conferimento in un veicolo, sia esso di natura societaria o di altra natura;

– la complessità del conferimento non è solo rappresentata dalla dimensione e vastità dell’operazione ma anche dall’ampiezza ed eterogeneità degli enti proprietari dei beni (9.000 circa) e dalla necessità correlata di rispettare le loro prerogative;

– il conferimento ad un veicolo di un patrimonio pubblico non può, per motivi legali, avvenire a valori diversi da quelli di mercato, così come da qualcuno prospettato per incentivare l’acquisto dei titoli, né è opportuno o corretto che i valori, oggi particolarmente depressi, generino successive rivalutazioni che vadano a vantaggio di alcuni cittadini e non di altri.

Per quanto concerne l’acquisto forzoso di azioni o quote di fondi per una cifra di 300/400 miliardi da parte dei contribuenti si tratta di una ipotesi disfunzionale rispetto agli obiettivi che la situazione economica attuale del Paese esige, in quanto:

a) equivarrebbe di fatto ad un esproprio molto corposo di una parte rilevantissima di ricchezza privata, in quanto il valore delle azioni o quote del veicolo utilizzato, se fossero trattate su un mercato secondario subirebbero un deprezzamento di valore non inferiore nella migliore delle ipotesi al 40-50%; tale effetto, considerato l’alto livello di eterogeneità del patrimonio conferito, l’alto livello di incertezza nei valori realizzabili e nei tempi di realizzazione, la scarsa redditività attuale (meno dell’1%) che incorporerebbe un tale investimento di durata pluriennale (20-30 anni), è un dato oggettivo che non si può trascurare;

b) i cittadini/contribuenti coinvolgibili potrebbero essere solo quelli che possiedono liquidità o attività patrimoniali liquidabili in misura adeguata in quanto gli altri dovrebbero ricorrere necessariamente all’indebitamento bancario (ipotesi del tutto surreale); ne conseguirebbe che la platea dei contribuenti effettivamente assoggettabili sarebbe limitata a non oltre il 10-15% dei contribuenti totali (45 milioni); pertanto il carico forzoso medio per ogni contribuente sarebbe di circa 100.000 Euro e appare chiaro di conseguenza che la soluzione risulterebbe impercorribile in quanto la distribuzione del peso che ne deriverebbe nell’applicazione pratica, nel rispetto dei principi di equità e progressività, comporterebbe salassi abnormi per qualunque fascia di contribuente, provocando peraltro effetti controproducenti sulla crescita.

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Per quanto concerne l’ipotesi da alcuni prospettata di un’offerta pubblica di scambio tra bond emessi da un veicolo che accorpi beni mobiliari e immobiliari e Btp su base volontaria, questa proposta, oltre a presentare tutte le criticità già descritte, non risulterebbe praticabile per le seguenti ragioni:

– lo scambio potrebbe essere preso in considerazione ove sussista almeno una parità di valori finanziari e del grado di rischiosità tra i due titoli di debito;

– questa possibilità è irrealistica in quanto implicherebbe dotare il veicolo di una redditività non inferiore al 6-7% (ma non basterebbe) con il risultato di non procurare alcun risparmio sul bilancio dello Stato;

– peraltro, non è ipotizzabile uno scambio di titoli che hanno un alto livello di collocabilità sul mercato con altri la cui liquidabilità sarebbe tutta da dimostrare e anzi sarebbe pressoché inesistente data l’impossibilità di assicurare un piano credibile di rimborso dei titoli di debito del veicolo non essendo possibile dare certezze sull’andamento del flusso delle vendite degli immobili o di altri beni.

Tutto ciò considerato le conclusioni sono:

– il patrimonio pubblico mobiliare e immobiliare del nostro Paese è per dimensione e valore complessivo di buon livello e non può non essere utilizzato per conseguire l’ineludibile obiettivo di ridurre lo stock di debito;

– questa opportunità non va sprecata rincorrendo iniziative inappropriate;

– per operare in forma appropriata, oltre ad eliminare tutti i principali e spesso inutili ostacoli burocratici per valorizzare gli immobili e a produrre una ottimizzazione degli spazi occupati, occorre in primo luogo ripristinare le condizioni determinanti per rendere più fluido e di spessore sia il mercato immobiliare che quello mobiliare;

– questo risultato può essere ottenuto solo se si ricreano preventivamente le condizioni per riattivare i rubinetti del credito e si eliminano gli insostenibili appesantimenti fiscali che hanno depresso uno dei principali punti di forza del nostro Paese;

– l’unico modo per ristabilire questa condizione è quello di ripristinare preventivamente la fiducia degli investitori sul nostro Paese che a sua volta implica inevitabilmente una revisione dei piani di risanamento del Paese da conseguire con un utilizzo della leva fiscale in forma più efficiente ed efficace;

– il patrimonio pubblico può essere venduto in forma ottimale solo se si affida il processo ad operatori specializzati e strumenti efficienti come i fondi immobiliari ad apporto, se si eliminano le assurde procedure burocratiche che in alcuni casi prevedono il rilascio di autorizzazioni di un numero abnorme di enti diversi (circa 38 enti in una recente operazione in corso di perfezionamento) e si avvia un programma di razionalizzazione degli immobili occupati che ci porti dalla media di 50 metri quadrati per addetto della nostra PA alla media europea di 20 metri quadrati per addetto.

Pertanto, sulla base delle considerazioni oggettivamente rappresentate, la risposta al quesito iniziale è positiva ma la condizione per realizzarla passa necessariamente da una piena acquisizione di consapevolezza, di tutti i vincoli e tutte le precondizioni presenti sul campo.

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