di Manuela Iannetti
Marta ha poco più di trent’anni. A quella stessa età l’imperatore Adriano aveva conquistato il Senato.
Rispetto all’epoca romana, che conosce alla perfezione perché è una storica dell’arte, c’è una questione di genere, e di generazioni. Oltre a molto altro, stratificato sopra. Perché Marta è nata alla fine degli anni Settanta, e poi è cresciuta in un paese che, in poco più di un trentennio, si è mangiato tutto quello che era stato accumulato, compreso il futuro dei suoi figli.
Non ci sono stati agi, per Marta, ma un po’ di stimoli culturali e affetti sani, sì, e senso morale ed entusiasmo e tanta bellezza, negli occhi, ancora prima che nel corpo. E dalle passioni familiari ne è nata un’altra, quella per l’arte. Però tutte queste cose che ha imparato, Marta le racconta solo agli amici. Perché come per il castigo inflitto a tutta la sua generazione, è approdata anche lei al traguardo: disoccupazione. “Fine pena, mai”.
Così, quando hai trent’anni e i tuoi amici si sposano, e tu non puoi permetterti nemmeno un aperitivo ai Muri beh. ti sale dentro come una rabbia muta, come un rancore per la vita. E allora firmi, per riaccendere il futuro, firmi e non importa da quale parte arriva, da quale prospettiva lo devi guardare, questo futuro. La voglia di avere un’occasione è troppo forte.
Marta ha firmato. E ora, ha un lavoro. È parte di quel popolo muto dei servizi al pubblico, settore automobilistico, divisione autostrade. Lavora al casello, circonvallazione urbana: Tir, pendolari, esodi, nebbia, afa. Traffico. “Sì, dove è entrato? Uno e novanta grazie, per Milano la prima a destra”.
Il lavoro è part-time, 800 ore all’anno e non di più, che tanto non gliele pagano. Colma le assenze dei dipendenti a tempo pieno, secondo lo schema 4+2, su tre turni, servizio sempre garantito. Io non lo so cosa vuol dire, ma Marta me lo racconta, mentre beviamo la nostra birra ghiacciata prima del suo turno. Marta mi spiega che se i riposi dei colleghi si collocano in modo continuativo, lei non dorme tre giorni di fila. Però questo sul suo contratto non c’è mica scritto.
La birra mi va di traverso, ma il sorso amaro non è ancora arrivato: il trattamento “sempre a disposizione” è impietoso come una macchina da guerra. Non prevede nessuna eccezione, e nei mesi di massimo passaggio autostradale, a Natale e d’estate, quando il lavoro chiama, devi andare. Per riposarti, avrai tempo a febbraio, e a ottobre, quando il contratto prevede il divieto di lavoro.
Sì. Divieto di lavoro.
Che però non è per tutti, ché le autostrade mica chiudono. Ognuno ha il suo mese di turnazione. Il suo blackout di vita. “C’è da sperare di non innamorarsi mai di un collega, altrimenti meglio comprarsi un album di foto”, dice Marta, con un sorriso che nonostante tutto si accende.
E poi c’è la disponibilità su chiamata, in tutti gli altri mesi dell’anno, senza possibilità di recesso, come le offerte televisive che ti colgono incautamente distratto. E le ferie, e lo metti per iscritto, mica si fanno durante le feste. Cioè, non è che si fanno i turni. Proprio mai mai. I giorni li assegnano dall’alto, e quando arrivano arrivano.
Il resto, dice Marta, è lavoro. Bello, non so; brutto, abbastanza, a pensarci. Operai che la gente chiama “omini del casello”, quasi una categoria a parte. Ti passa la voglia, di chiamarlo lavoro.
“Però mi pagano”, dice sottovoce, mentre gioca con il tappo dentellato.
E che cazzo, Marta. Lo penso, ma non lo dico. Perché domani, partirà. Approfitterà di uno di quei “periodi obbligati” per visitare una manciata di chiese nell’entroterra, per la tesi di laurea. Non si può permettere a tempo pieno i sogni, e allora li baratta, con la sopravvivenza quotidiana, un po’ alla volta. Perché sa che combattere non ha senso. Che i suoi colleghi non sono mica nemici, che la frammentazione dei lavoratori è frammentazione del singolo, della solidarietà. Ognun per sé, come monadi. Ciascuno per sé, da solo, che forse è meglio, e tutti per nessuno.
La precarietà è anche questa.
E Marta lo sa.
Però domani, per un giorno, sarà Toscana.
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