Mi sono accorto che, in questi anni di collaborazione con il magazine online Megachip, i miei brevi articoli, quando non sono stati dedicati alle sorti delle cosiddette forze anti-sistema, hanno continuato a ruotare attorno a un centro sfuggente: quello del rapporto tra spiritualità (laica) e trasformazione politica. Mi sono chiesto più volte perché insistere su un tema apparentemente così periferico rispetto alle urgenze della “rivoluzione”, se non fosse che la politica, ridotta alle premesse di un materialismo rozzo e riduzionista, mi pare ancora parte del problema. E il problema, formulato senza giri di parole, mi sembra il seguente: perché il capitalismo spettacolare integrato sembra essere diventato l’orizzonte ultimo della Storia?
Sia chiaro, questa impressione non corrisponde completamente alla realtà (basti pensare ai profondi rivolgimenti internazionali che ci stanno conducendo a un mondo multipolare e alla crisi sistemica che, prima o poi, costringerà anche le elite mondiali a correre ai ripari), tuttavia colpisce la diffusione di un senso di impotenza, di sconforto, di impossibilità a immaginare un cambiamento graduale e radicale proprio tra le masse subalterne che avrebbero mille motivi per trasformare i rapporti di forza ed esigere un ripensamento complessivo dell’odierno assetto socio-economico. Per spiegare questo senso strisciante di indifferenza e di sconfitta non basta appellarsi al potere manipolatorio e onnipresente dei mass media. Il sistema delle merci e dello spettacolo, non vi è dubbio, ha contribuito a fiaccare la resistenza al degrado civile e democratico in cui stiamo affogando, eppure se vi è riuscito lo dobbiamo a un preciso meccanismo di dominio che fa leva sulla natura duplice dell’essere umano. Siamo, insomma, alle prese con un livello del discorso che tocca le radici antropologiche e filosofiche della nostra esistenza.
La società di mercato ha dimostrato di possedere al massimo grado la capacità (condivisa comunque con tutte le forme di dominio apparse nella storia, ma oggi particolarmente pervasiva) di separare gli individui dal possibile, dal Sacro. In un libro illuminante del 2009 Felice Cimatti scrive: “La distinzione tra sacro e profano non è una distinzione che appaia al credente e non al laico, o all’ateo; è una distinzione che segna l’esistenza di ogni animale umano, perché non c’è Homo Sapiens che non si trovi continuamente a varcare la soglia tra reale e possibile” (F. Cimatti, Il possibile e il reale. Il sacro dopo la morte di Dio, Codice Edizioni, 2009).
E sembra fargli eco Stefania Consigliere quando afferma: “Per molto tempo la confusione del sacro col religioso ha impedito al pensiero di matrice critica di affrontarlo: nell’urgenza di disfarsi del modo di dominio delle chiese e delle loro gerarchie, si è perso traccia di ciò che, vivo e vitale, era stato colto illo tempore dalle religioni organizzate. Del sacro dunque bisogna tornare ad occuparsi proprio perché agnostici o atei o comunque privi di parrocchia, abbandonando l’irrisione arrogante e liberandolo, al contempo, dalla sua condizione di ostaggio in mano a oscurantismi e cialtronerie d’ogni risma. La posta in gioco è delle più importanti: si tratta, nientemeno, che del rapporto col possibile, e il recupero è tanto più urgente in una situazione in cui il rischio non è più quello classico e arcinoto della delega del sacro agli esperti religiosi, ma quello della sua completa rimozione dal campo dell’esperienza, con ciò che ne consegue: la consegna dei soggetti a un’attualità totalizzante e totalitaria” (S. Consigliere, Antropo-logiche. Mondi e modi dell’umano, Colibrì Edizioni, 2014).
Con questo spirito dovremmo condurre la nostra critica radicale al capitalismo, ricordando che l’animale uomo vive sulla soglia tra possibile e reale, sacro e profano. La nostra specie, infatti, si caratterizza per la debolezza degli istinti e per lo sviluppo di facoltà e capacità altamente potenziali. Il nostro costruire presenza muove dalla valorizzazione di un programma di apprendimento aperto, dalla disposizione bio-logica a creare insieme agli altri le condizioni storiche del nostro abitare il mondo. Là dove non esiste per l’uomo un istinto rigido con risposte automatiche agli stimoli dell’ambiente, sorge allora lo spazio – perturbante e fecondo al tempo stesso – del possibile.
Libertà è per l’uomo garantire il passaggio tra potenza e atto, dare espressione all’inesauribile sfondo preindividuale e indifferenziato da cui proveniamo, senza la pretesa di esaurirlo. Rimanere in contatto con questa forza che è all’origine di tutte le metamorfosi possibili significa, per l’animale culturale uomo, poter attingere dal possibile ogni volta che si renda necessaria una trasformazione del reale. L’utopia e il progetto politico fanno capo a questa potenzialità creativa, in mancanza della quale saremmo… dove ci troviamo adesso!
E veniamo così al dunque: il capitalismo giunto alla sua fase globale spezza il nesso vitale tra potenza e atto, separa l’una dall’altro neutralizzando per il momento qualsiasi tentativo di costruire un’alternativa al predominio incontrastato dell’economia di mercato. Come ci riesca è presto detto: stravolgendo le caratteristiche sia della potenza che dell’atto. La prima viene ridotta all’accumulazione di denaro fine a se stessa, come lavoro morto risultante dagli investimenti finanziari e dallo sfruttamento del lavoro salariato; assistiamo dunque a un culto per la potenza in quanto tale, priva di realizzazioni possibili che non convergano nella ripetizione vertiginosa degli atti di consumo.
Ed eccoci all’atto: l’attualizzazione della potenza, ovvero il reale del possibile, si riduce in quest’epoca alla collezione di merci e finte esperienze tutte uguali. La coazione a ripetere, che riduce ogni felicità al piacere decrescente delle dipendenze (fino all’assuefazione e al dolore che ne consegue), soffoca l’accesso al possibile e genera l’illusione che ci tiene avvinti, secondo cui tutto è già stato sperimentato e non è più possibile creare nulla di nuovo. Ciò accade perché la potenza di essere (che è sempre presente e accompagna ogni gesto senza esaurirsi) viene confusa con un atto precedente posizionato nel tempo e gli atti, invece, si presentano chiusi invece che aperti a inedite e possibili realizzazioni. Il consumo e l’accumulo di denaro/merce sono una parodia della dialettica autentica fra potenza e atto, in realtà non fanno altro che produrre atti chiusi in se stessi, privi di contatto con il preindividuale (per utilizzare ancora il concetto di Gilbert Simondon che allude alla potenza del sacro), ripetitivi, fintamente autosufficienti.
Presi in questa trappola sembreremmo spacciati, privi di scelta e in balia di un sistema impersonale che gira a vuoto, eppure non dobbiamo dimenticare – come ricorda Cimatti – che “una volta che nel nostro mondo è entrato il possibile ogni movimento è praticabile, e quindi anche la mossa più banale è una scelta, perché ne esclude altre, anche se solo in modo implicito”. Il fatto di essere umani, in altre parole, non può che implicare un rapporto con il possibile, con l’immaginare altrimenti i dati di realtà. Anche il lasciarsi portare dalla corrente è una scelta, invero la più vigliacca tra tutte quelle possibili. Il sortilegio che tiene in catene, l’illusione che acceca una parte di umanità stanca e ipnotizzata, è quella che si possa tornare a uno stato “naturale”, istintivo, che ci eviti di contattare il possibile con tutte le angosce e le potenzialità che questo si porta dietro.
La spiritualità, lungi dal riguardare solo i cosiddetti credenti, è un concentrato di senso, un’esperienza ontologicamente imprescindibile per sentire che l’accesso al sacro-possibile non ci è precluso. La politica che viene (ma che sta a noi far venire prima “possibile”) non dovrà avere paura di farsi poesia, sogno e profezia, di tenere insieme l’azione e la contemplazione, di sostare con saggezza sulla soglia tra sacro e profano. Di farsi custode del transito che attraversa i due poli e al quale dobbiamo la nostra esistenza storica.
(5 agosto 2015) [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it[/url]