di Giuseppe Maria Pignataro
Il 2015, sulla base delle dichiarazioni ufficiali si chiuderà con un tasso di crescita di +0,8%.
Molti considerano questo risultato soddisfacente perché veniamo da tre anni e mezzo di recessione.
Un tempo biblico (in senso economico) che ci ha annichiliti e che ci fa vedere con sollievo anche lo zerovirgola, purché il segno davanti sia positivo.
Tuttavia, al di là delle indicazioni emotive, gli economisti generalmente condividono che il 2015 si è chiuso con un bel dilemma.
Come è possibile che con una combinazione di fattori ultrafavorevoli, difficilmente riscontrabili simultaneamente nella storia economica del nostro paese, come i tassi di interesse ai minimi storici, il cambio dell’euro decisamente debole in rapporto al dollaro, la liquidità abbondante come mai vista prima, una bolletta energetica mai così bassa per un paese che importa la quasi totalità del proprio fabbisogno di energia e una apprezzabile prodigalità di interventi di rilancio attuati dall’esecutivo, il PIL ha avuto un rimbalzo così limitato?
E il punto di domanda diventa ancora più enigmatico se si vanno a vedere i numeri macro.
Il costo della bolletta petrolifera è calato di 21 miliardi di Euro rispetto al 2014, le famiglie e le imprese hanno visto abbattere la spesa per interessi di almeno cinque miliardi, il bilancio pubblico ha beneficiato di una minore spesa per interessi di oltre 5 miliardi, tutti utilizzati per politiche fiscali più espansive, e l’export verso gli Stati Uniti, grazie al cambio, è cresciuto di quasi il 30%.
In condizioni normali l’acquisizione di tali elementi estremamente positivi, in un paese con una forte vocazione esportativa, avrebbe portato a tassi di crescita ben più robusti; perché ciò non è accaduto?
Le ragioni erano già state prospettate nell’articolo dell’11/1/2015 dal titolo “tre mosse per riagganciare la ripresa” e di fatto sono:
a) le criticità del sistema bancario, sfiancato da una crescita dei crediti problematici di abnorme dimensione;
b) una ripresa dei consumi modesta, essendo ancora condizionata da un aumento della disoccupazione molto rilevante e dalle alte insicurezze sul futuro che si sono stratificate pesantemente sulle famiglie negli ultimi anni;
c) un ritorno agli investimenti delle imprese di fatto inconsistente a causa di un accesso al credito molto più selettivo per le PMI e di una capacità produttiva inutilizzata molto elevata;
d) una dinamica degli investimenti pubblici inidonea a supportare una politica economica adatta a fronteggiare una fase di debolezze e fragilità diffuse nell’intero sistema economico nazionale.
Ora la domanda cogente è: che cosa succederà nel 2016? Ci libereremo dall’angoscia di una crescita ancora asfittica e poco percepita in molti settori della popolazione?
Se osserviamo le previsioni economiche del 2016 constatiamo che tendenzialmente prevale l’ottimismo.
Tutti i previsori istituzionali indicano tassi di crescita reale oscillanti da un minimo dell1% ad un massimo dell’1,6%.
I fattori rilevanti che giocheranno un ruolo positivo sono rappresentati dalla politica monetaria decisamente espansiva della BCE, dalla persistente debolezza dell’euro rispetto al dollaro, dal prezzo del petrolio ancora in caduta, dal consolidamento della ripresa economica in tutta l’area euro e dagli impulsi fiscali messi in campo con audacia dal governo Renzi.
Si tratta di agenti di elevata potenza, fondamentalmente acquisiti, che dovrebbero indurre senz’altro a far fare un altro balzo in avanti al nostro PIL.
Non mancano tuttavia i rischi al ribasso che potranno frenare le correnti espansive citate.
Questi provengono da due fonti: una esterna ed una interna.
Dall’esterno incombono gli elementi destabilizzanti legati all’evoluzione carica di incognite dell’economia cinese e gli impatti non facilmente misurabili che il rialzo progressivo dei tassi americani avrà sui paesi emergenti.
Il rischio che il commercio mondiale ne soffra comunque e con esso il nostro export, sono abbastanza elevati.
Il secondo fattore è indubbiamente il terrorismo.
Se dovessero ripetersi altri attentati come quelli recenti, l’economia europea e mondiale non risulterebbero immuni da conseguenze tangibili.
Dal versante interno i rischi provengono prevalentemente dal settore bancario.
La vulnerabilità di questa industria emersa a seguito di una crisi economica senza precedenti nel dopoguerra, principalmente imputabile ad una interpretazione dell’austerity scellerata che ha portato dal 2007 ad oggi a triplicare il volume dei NPL (non performing loans) nei bilanci delle banche, è un dato ormai ineludibile che può generare effetti destabilizzanti non trascurabili, qualora dovessero reiterarsi situazioni simili a quelle che hanno coinvolto le quattro banche oggetto del recente doloroso salvataggio.
Su questo fronte, purtroppo, siamo ancora lontani dall’individuare soluzioni di sistema risolutive e ciò ci espone a seri pericoli nel caso in cui persistano bassi tassi di crescita.
Il pieno risanamento del sistema del credito infatti dipenderà unicamente da una ritrovata buona capacità di generazione di profitti che a sua volta non può che essere legata ad un recupero del ciclo, solido e duraturo.
Un altro grande fattore di rischio è l’inflazione. Se non ritornerà al più presto su livelli almeno dell’1% i paesi molto indebitati come il nostro, ne soffriranno pesantemente. Risulta chiaro infatti che da un lato non possiamo permetterci per nessun motivo di rinviare ancora l’uscita da una traiettoria rialzista del rapporto debito/PIL, che dura ormai da sette anni, e dall’altro che l’entrata in una dinamica ribassista dipende solo e soltanto da una crescita del PIL nominale vicino ai 3 punti percentuali che si consolida nel tempo.
Se ciò non accadrà già nel 2016, il clima di fiducia verso la effettiva capacità dell’Italia di avviare un percorso credibile di uscita da un’alta vulnerabilità si affievolirà rendendo più complessi i rapporti con la commissione europea e con i mercati, e generando rischi di ricadute in spirali negative di difficile controllo.
In definitiva il gioco dei pesi e dei contrappesi favorevoli e sfavorevoli rischiano di farci vivere un 2016 fotocopia del 2015: una crescita stentata pur in presenza di tanti potenti impulsi esterni.
E se così fosse avremo sprecato un altro anno senza comprendere che il nostro paese ha sempre un bivio davanti a sé, in cui c’è una sola strada che porta alla salvezza: quella impegnativa che prevede la riduzione del debito pubblico come mezzo per cambiare le prospettive e non quella apparentemente più semplice che la lascia intravedere, in modo assai incerto, solo in un orizzonte molto lontano.
Quest’ultima dovrebbe essere ormai evidente che può rivelarsi una pura allucinazione; specialmente ove si tenga conto che i potenti aiuti esterni non saranno eterni e che al di la della loro fine, senza il ritrovamento di un chiaro percorso virtuoso, c’è l’incertezza più assoluta sul nostro futuro. Ergo, i conti con la realtà è meglio farli a tempo debito.
giuseppemariapignataro57@gmail.com