Alessia Mosca: "Sulle diseguaglianze di genere il governo peggiora le cose"
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Alessia Mosca: "Sulle diseguaglianze di genere il governo peggiora le cose"

L'eurodeputata e madrina" della legge sulle quote di genere con Lella Golfo: "Non sviliscono i meriti. Ma l'esecutivo non è interessato"

Alessia Mosca
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4 Marzo 2019 - 20.12


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di Francesca Fradelloni

Un 8 marzo di lotta, quest’anno. Per quanti anni ancora? Per quanti anni ancora saremo un Paese senza meritocrazia e pari opportunità tra maschi e femmine? Un Paese dove il divario arriva fino a Piazza Affari, in cui le donne guadagnano la metà dei manager uomini. Un Paese in cui la maternità è percepita come problema.
Eppure donne e lavoro, è un connubio che conviene. Lo dicono in tanti. Banca d’Italia racconta come un aumento del tasso di partecipazione femminile al 60% comporterebbe, quasi “meccanicamente” un aumento del Pil fino al 7%. Inoltre, gli analisti di McKinsey dicono come la parità di genere può valere il 26% del Pil mondiale, pari a 12 trilioni di dollari di ricchezza globale in più entro il 2025.
Il tutto confermato dal Fondo monetario internazionale. Il Fondo analizzando più di due milioni di società in 34 paesi d’Europa ha rilevato che l’aumento del numero di donne ai vertici delle società e nei Cda, è associato ad una migliore performance finanziaria.

Ed è questo il campo in cui si muove una delle leggi più monitorate della nostra recente storia. “Siamo riusciti ad avere dei numeri molto incoraggianti: innalzamento della percentuale femminile nei board oltre il 30%. Abbiamo abbassato l’età media, abbiamo ottenuto una maggiore qualità dei profili a disposizione delle aziende: c’è ora uno scrutinio molto più attento anche sui curricula degli uomini. Siamo riusciti a sfatare il falso mito che le leggi sulle quote sviliscano la meritocrazia. Insomma, diciamolo, con questa legge abbiamo dato slancio a un cambiamento”, racconta Alessia Mosca, Pd, eurodeputata, prima firmataria, insieme all’onorevole Lella Golfo, Pdl, della Legge 120/2011, cosiddetta sulle “quote di genere”.

A che punto siamo?

Non posso negare la mia preoccupazione. La legge Golfo-Mosca ‘scade’ nel 2022, una legge che ci invidiano tutti in Europa e che in quattro anni ha visto il +75% di donne nei ruoli apicali delle società controllate.
Preoccupazione politica perché l’attuale maggioranza di governo non ha la questione delle disuguaglianze di genere nel proprio radar e quando se ne occupa, come nel caso del disegno di legge Pillon, sembra puntare a peggiorare una situazione già grave. È necessario un nuovo protagonismo, non solo delle donne, ma di tutti coloro che hanno a cuore la costruzione di una società giusta ed equa.

L’Osservatorio Smartworking della School of Management del Politecnico di Milano ha fornito i dati relativi al cosiddetto lavoro agile. L’Osservatorio dice che la percentuale più alta di “smartworke”r si registra tra lavoratori di sesso maschile. Possiamo finalmente dire che la conciliazione non è un’esigenza solo femminile?

È chiarissimo quanto lo smartworking sia diventata una necessità per molti lavoratori – a prescindere dal genere, ma anche dalla posizione in azienda – basta guardare i dati e la velocità con cui sempre più progetti vengono lanciati. Questo sentimento non è nuovo, è stato infatti uno degli stimoli che mi ha portato a occuparmene da vicino presentando alla Camera la prima proposta di legge sullo smartworking, nel gennaio 2014, che aveva l’ambizione di portarlo dall’essere una pratica legata all’iniziativa di poche grandi aziende, spesso multinazionali, a una dimensione nazionale e alla portata di tutti. Oggi non siamo ancora arrivati a una diffusione capillare, ma sempre più imprenditori aderiscono a qualche tipo di organizzazione smart del lavoro dei propri dipendenti anche perché si sono accorti di quanto possa essere conveniente sotto molti aspetti: dati alla mano, più lavoro “agile” porta a maggiore attaccamento e produttività da parte del lavoratore, permette di risparmiare in termini, per esempio, di costi legati agli spazi degli uffici e contribuisce, inoltre, ad alleggerire l’impatto ambientale legato agli spostamenti quotidiani casa-lavoro.
A mio avviso lo stereotipo per cui sono più le donne a volere lavorare smart da tempo si sta dissolvendo, anche grazie ai dati sempre puntuali dell’Osservatorio del Politecnico di Milano. Le generazioni più giovani, poi, che reputano sempre più imprescindibile una certa libertà in termini di organizzazione del lavoro, sono naturalmente predisposte a scegliere di lavorare in remoto, abituati come sono alle nuove tecnologie che permettono loro di gestire e organizzare organizzano anche le relazioni sociali e gli impegni familiari.
Nonostante tutto non voglio però dire che bisogna abbassare la guardia o semplicemente lasciare che le cose evolvano da sole: si deve continuare infatti a fare informazione, insistere sulla cultura dello smartworking anche proprio per come la società sembra pronta ad accoglierla. Oggi, credo sia davvero venuto il tempo di farne quasi un diritto, regolandolo appositamente tanto da arrivare al suo riconoscimento definitivo.

L’occupazione femminile si è andata via via concentrando nel settore dei servizi a basso reddito. Non crede che sia responsabilità della politica intervenire nei processi di reclutamento e formazione? Non si potrebbe incoraggiare le donne a scegliere lavori non ritenuti tradizionalmente femminili?

La questione è molto complessa e non è facilmente risolvibile con un semplice intervento dall’alto perché, come tutte le caratteristiche culturali, moltissimi fattori concorrono a costruire una risposta adeguata e bisogna agire sapendo di avere un orizzonte temporale di decenni, non di anni, per vedere i primi risultati. Nel nostro Paese le donne subiscono una segregazione del lavoro sia verticale, in termini di possibilità di carriera, sia orizzontale, in termini di ambiti professionali. Certamente la politica può giocare, se vi è la volontà, un ruolo importante, soprattutto con campagne di informazione e sensibilizzazione, non solo dei giovani ma anche delle famiglie e delle principali agenzie di socializzazione, come la scuola.
Non possiamo pensare, infatti, di intervenire solo nel momento dell’ingresso nel mondo del lavoro delle ragazze. Per creare una cultura della parità anche delle possibilità, bisogna a mio avviso, insistere sui modelli, lavorare sulle informazioni a cui vengono esposte le giovani donne e finanche le bambine a scuola, sulle scelte dei libri da leggere o dei giochi con cui giocare.
Inoltre, è necessario fare i conti e intervenire con il fatto che il mercato del lavoro è ancora oggi disegnato su un modello maschile (alle volte anche antiquato). Per una donna è, ancora oggi, estremamente difficile lavorare in determinati settori, penso alla ricerca universitaria solo per fare un esempio, che non prevedono spazi e tempi per la propria vita privata, così in molte rinunciano prima, o nelle fasi iniziali della propria carriera.

Come potrebbe fare e cosa il Parlamento europeo per sollecitare tutti i soggetti istituzionali a rimuovere le distorsioni nel mercato del lavoro e creare le condizioni per l’attuazione di misure che contribuiscano a intensificare la domanda di lavoro femminile?

Il Parlamento Europeo già da anni “sollecita”, informa, cerca di attirare l’attenzione dei cittadini, dei media e della politica su questi temi. Purtroppo, però, i suoi poteri di intervento sono limitati: la politica sociale è ancora di competenza esclusiva degli Stati membri, che spesso continuano a non considerare questi temi come prioritari. Attualmente, le istituzioni europee stanno lavorando a una proposta della Commissione sul work-life balance, che – nella sua versione originale – conteneva degli strumenti molto importanti come, appunto, il congedo di paternità, il lavoro agile e persino il congedo per i “carers”, per coloro che avevano familiari anziani e/o malati a carico. Gli Stati membri stanno facendo un’opposizione molto forte a questa proposta e temo proprio che difficilmente vedrà la luce entro questa legislatura, se non – forse – in una versione estremamente annacquata e indebolita.

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