Era un ingegnere ed era un economista. Sognava e soprattutto era impegnato per un futuro nel quale lo sviluppo e l’innovazione tecnologica fossero il fondamento di un nuovo patto sociale che superasse la concezione ‘turbocapitalista’ dello sfruttamento ma mettesse al centro un’evoluzione del lavoro che coniugasse una maggiore redistribuzione delle ricchezze e un utilizzo più ‘umano’ dei tempi della vita.
Una personalità geniale, un intellettuale che amava misurarsi con gli scenari del futuro e già venti anni fa aveva messo in guardia dai rischi del conservatorismo nel mondo del lavoro e nelle decisioni, che non avrebbe consentito di sfruttare a pieno le enormi potenzialità che l’innovazione tecnologia avrebbe apportato alle nostre vite.
E il suo monito non era privo di fondamento: negli ultimi decenni i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri più poveri e le tecnologie sono state spesso utilizzate per creare nuova disoccupazione e per sfruttare le risorse a ritmi più intensi.
Nicola Cacace se ne è andato questa mattina. Nel suo curriculum ‘ufficiale’ c’è scritto che è stato presidente di Nomisma, nel consiglio d’amministrazione della Banca Nazionale del Lavoro e direttore scientifico dell’Isri.
Ma Nicola Cacace era molto di più. Era un intellettuale che progettava al futuro e, come detto, coltivava il sogno di un vero umanesimo figlio dell’innovazione.
Ma non era un ingenuo sognatore: faceva i conti e l’enorme divario tra le potenzialità e l’esistente.
In un libro del 2007, l’Informatico e la badante, sottolineava come il basso tasso di innovazione in Italia producesse beni e servizi che non richiedevano personale qualificate e che il mercato del lavoro offriva davvero qualcosa solo a colf e badanti e quasi nulla a diplomati e laureati.
Cacace se la prendeva con la ‘gerontocrazia” e il governo dei vecchi che in Italia, a suo dire, rappresentava un blocco verso il vero cambiamento.
E così nell’invitare i giovani a non avere paura del futuro ma ad impegnarsi per essere portatori di una vera cultura politica, accusava quei guasti che nel decennio che sarebbe seguito avrebbero creato nuove ingiustizie: “Il capitalismo selvaggio può dare merci e beni ai cittadini favoriti dalla lotteria genetica oltre che dalle capacità, ma non risponde al bisogno di benessere diffuso, di giustizia sociale dell’uomo intero che solo un’economia sociale di mercato può dare, un capitalismo dove il mercato sia motore dello sviluppo ma non padrone e dove Parlamenti e governi dettino obiettivi e fini dello sviluppo”.
Esattamente quello che ‘non’ è successo, come purtroppo si è visto e si sta ancora vedendo.
Nicola Cacace se ne va ma – è il caso di dire senza retorica – il suo insegnamento resta e chissà se ora qualcuno tornerà a studiare i suoi testi e a farne tesoro. A me personalmente resta il ricordo di un uomo schietto, apparentemente burbero, che non si dava nessuna aria ed era una persona alla mano nonostante tutte le cariche che ha avuto.
Una persona che ho conosciuto sia per motivi familiari (un ramo della sua famiglia è amico della mia fin dagli anni Trenta e in queste ore ho sentito lo sconforto del nipote Maurizio che con i suoi insegnamenti ci è cresciuto) che professionali, essendo stato lui uno degli editorialisti di E-Polis del quale all’epoca del il condirettore.
Ai suoi familiari l’abbraccio più sincero. A noi che diventiamo vecchi e ai giovani l’invito a fare tesoro del pensiero di Nicola Cacace nella ricerca di un mondo più giusto e senza sfruttamento.