Dopo la grande crisi finanziaria del 2008/2009 si è cominciato a discutere con insistenza di Eurobonds e tale argomento viene riproposto al centro del dibattito tutte le volte che ci troviamo di fronte a crisi sistemiche. Sempre senza alcun esito concreto.
Cosa sono gli Eurobonds? Sono titoli di debito emessi da un’agenzia o da un fondo di emanazione europea per finanziare i paesi facenti parte della zona euro che godrebbero della garanzia “joint and several” di tutti i paesi membri dell’Eurozona a prescindere dal beneficiario delle singole emissioni e che andrebbero ad affiancare o sostituire le emissioni di debito pubblico dei singoli stati per soddisfare i loro fabbisogni di finanziamento.
I fautori sostengono che si tratta di strumenti di debt-management utili e/o necessari per supportare gli stati con alti livelli di debito pubblico con lo scopo di finanziare investimenti e stimoli fiscali in fasi di mercato turbolente e di evitare così di rimanere vittime della speculazione o della sfiducia degli investitori che tendono a rendere insufficiente la liquidità e a far diventare insostenibili i costi del debito nelle fasi acute delle crisi sistemiche.
Tali strumenti secondo i paesi favorevoli, sarebbero utili anche ai paesi che non hanno problemi di sostenibilità del debito poichè, in mancanza di essi, gli effetti destabilizzanti da cui possono essere colpiti alcuni paesi nei periodi di crisi globali per effetto delle difficoltà a gestire il proprio debito, potrebbero avere serie ripercussioni negative sulle economie dei paesi finanziariamente più solidi. Questi ultimi sarebbero infatti costretti, per salvare la moneta comune, a fornire ai paesi con maggiori difficoltà aiuti finanziari diretti ai paesi che ne hanno bisogno, e ciò provoca un effetto contagio anche ad altri stati meno vulnerabili a causa della crescita della percezione del rischio che ne trarrebbero gli investitori sui titoli pubblici dell’area euro.
Per contro i paesi del nord Europa ed in particolare la Germania sono da sempre molto restii a condividere gli Eurobonds, soprattutto se richiesti senza condizionalità nella gestione delle finanze pubbliche dai paesi cosiddetti “periferici” in quanto:
le obbligazioni solidali sul debito dei paesi più vulnerabili comporterebbero cambiamenti nella gestione fiscale anche dei paesi “core”;
l’utilità che viene loro attribuita, e cioè quella di contenere le crisi e prevenire futuri fallimenti sono infondate, perché non c’è alcuna garanzia che i paesi in crisi diventino paesi virtuosi nel sostenere i propri debiti aggiungendo la garanzia di altri paesi alla loro;
sarebbero quindi in effetti una cattiva idea poiché non solo trasferiscono debolezze dai paesi più deboli a quelli più forti ma anche perché tale trasferimento avverrebbe in modo poco trasparente e non controllabile;
rappresentano quindi solo un modo per cementare i problemi strutturali anziché eliminarli, in quanto verrebbe a mancare ogni incentivo ad operare in tal senso e nel tempo gli stessi eurobonds potrebbero diventare uno strumento non gradito ai mercati;
ogni soluzione a livello europeo deve saper distinguere rispetto a quale problema viene proposta: problemi di liquidità, di insolvenza, o di deficit strutturale; la proposta degli Eurobonds non distingue questi aspetti e quindi sarebbe in contrasto con la necessità di trasparenza e di stimolo a trovare soluzioni appropriate;
in un’area a moneta comune gli aiuti agli stati in difficoltà devono essere certamente concessi ma devono avere un senso ed una logica economica, non possono esser quindi concessi in forma generica ma devono essere indirizzati ad iniziative ben individuate in modo tale che l’impegno di chi concede l’aiuto sia determinato nella dimensione e nella durata e consentano di verificare i livelli di responsabilità assunti e di misurare i risultati.
Tutte queste considerazioni (riportate in alcune pubblicazioni della Bundesbank) sembrano apparire sul piano tecnicistico ineccepibili. Tuttavia lo sono solo se si stesse analizzando una relazione tra un normale finanziatore ed un normale debitore e/o tra stati che non hanno aderito ad un’area monetaria comune. Tra questi ultimi subordinare le scelte strategiche di salvaguardia del benessere dei popoli ad un problema sostanziale di sussistenza di fiducia reciproca, così come emerge chiaramente dalle considerazioni elencate, non dovrebbe esistere per definizione; altrimenti se questo è il tema che pesa maggiormente nei momenti cruciali nel definire i modelli di interrelazione, non si sarebbe dovuto procedere alla creazione di una moneta unica tra questi stati.
La zona euro è il frutto di un accordo monetario tra paesi con situazioni strutturali tra loro molto differenziate che hanno deciso comunque di mantenere politiche fiscali autonome; è inoltre un accordo di relativamente recente costituzione in cui non è stato per niente regolamentato come devono essere affrontati gli chock avversi che si sono ripetuti al ritmo medio di uno ogni cinque anni negli oltre venti anni di vita della moneta unica; un grave errore che penalizza seriamente i paesi più esposti ai rischi di mercato in quanto le decisioni strategiche in questi frangenti vengono di fatto imposte dai paesi che hanno maggiore forza contrattuale e che sono nello stesso tempo portatori di interessi contrapposti.
La sua nascita è avvenuta attraverso la cessione della sovranità sulla gestione valutaria e sulla politica monetaria ad organismi centralizzati, da cui tutti pensavano di trarre cospicui vantaggi: competere tutti insieme sui mercati internazionali avendo alle spalle una moneta forte che potesse fungere anche da moneta di riserva a livello globale; i paesi più forti avrebbero evitato di subire gli effetti negativi delle continue svalutazioni delle altre monete europee o della eccessiva rivalutazione della propria; quelli più vulnerabili di godere delle capacità di accesso ai mercati finanziari a condizioni molto più convenienti sia per finanziare il debito pubblico che il debito privato.
Il tutto ha funzionato in modo sufficientemente apprezzabile fino a quando non si sono verificate chock avversi che hanno generato profonde asimmetrie e frammentazioni tra i vari stati come quella del 2008/2009 e quella del 2011/1012.
Fino a queste fasi, i paesi “core” dell’area euro hanno ricevuto, nei momenti di normalità, notevoli vantaggi. Hanno potuto esportare a condizioni molto favorevoli dentro e fuori dall’area euro, senza temere le svalutazioni di cambio che inevitabilmente si sarebbero verificate all’ interno di una ampia zona geografica europea in assenza della moneta unica. Hanno accumulato così enormi avanzi commerciali e saldi attivi nella bilancia dei pagamenti ed il loro Pil ha quindi registrato una espansione virtuosa anche rispetto alla evoluzione del debito, precostituendosi spazi di manovra rilevantissimi da utilizzare nelle fasi di grandi crisi mondiali per supportare con il debito pubblico il proprio sistema economico e produttivo. Peraltro, tali paesi, nei periodi delle crisi sistemiche citate hanno ricevuto un ulteriore grande vantaggio determinato dal “flight to quality”; un fenomeno di vastissime proporzioni che ha fatto affluire dosi massicce di liquidità in questi stati comprimendo nel contempo notevolmente il costo del servizio del debito, rendendo così molto più agevole il ricorso a politiche economiche anticicliche e la salvaguardia dei propri sistemi produttivi e finanziari nelle fasi critiche del ciclo.
Per contro i paesi cosiddetti “periferici” nei periodi di normalità non hanno saputo e/o potuto ridurre i disequilibri macrostrutturali provocati anche dalla mancanza di opportune politiche di sviluppo della domanda interna dei paesi “core” e nei periodi di crisi sistemica hanno subito esattamente l’effetto opposto dal “flight to quality”.
Gli investitori hanno venduto massicciamente i loro titoli pubblici e privati, la speculazione si è accanita aggravando i problemi: la liquidità si è rarefatta ed i costi relativi del debito sono cresciuti in misura molto consistente, lasciando molte macerie sul campo. Si è innescato in questo modo un circolo vizioso che li ha resi più deboli e vulnerabili rendendo pressochè estremamente arduo il ricorso a politiche di contrasto efficaci alle crisi. Solo le politiche monetarie ultraaccomodanti di Mario Draghi li hanno preservati dal subire crisi economiche e sociali ben più pesanti.
E’ quindi evidente ed ineccepibile che gli stati meno vulnerabili o cosiddetti “core” dal 2008 in poi hanno superato le difficoltà congiunturali e sono diventati più forti anche a causa delle debolezze altrui (considerazioni affermate da autorevoli centri studi degli stessi paesi).
Ed i maggiori vantaggi di cui hanno goduto e continuano a godere i paesi “core” appartenenti ad un’area monetaria così imperfetta, sia in periodi di normalità che di crisi, si misurano in valori molto consistenti; certamente nell’ordine delle centinaia di miliardi di euro su base annua.
Non riconoscerlo, in periodi di normalità, può anche essere comprensibile. Disconoscerlo e non tenerne conto in periodi di crisi, rifugiandosi dietro argomentazioni tecnocratiche dal sapore non poco opportunistico, e facendo leva anche sul fatto che nessun paese anche se travolto da immense difficoltà può trovare vantaggioso il ritorno ad una moneta nazionale, rappresenta una posizione molto speculativa e miope in quanto danneggiando gravemente gli altri stati mina violentemente alla radice l’impianto europeo, mettendo a rischio seriamente il futuro di tutti i paesi europei.
Non è affatto legittimo quindi considerare come “un pericoloso trasferimento di debolezze” uno strumento finanziario che può risultare molto utile a mettere i paesi europei più vulnerabili in condizione di reagire in modo efficace ed appropriato per superare senza devastazioni la crisi in atto; soprattutto se questo strumento viene richiesto ed utilizzato, come stanno facendo attualmente alcuni paesi europei tra cui l’Italia, in forma mirata al superamento della crisi contingente che se accettata metterebbe in gioco solo una parte dei grandi vantaggi accumulati nel tempo per effetto proprio di quelle debolezze di altri stati,
Peraltro, nell’attuale contesto nessuno stato è responsabile di ciò che sta accadendo ed anche questo rappresenta un buon motivo per non lasciarlo da solo nell’affrontare le difficoltà nel reperimento di risorse sufficienti e a costi sostenibili sui mercati, ponendo un problema di fiducia e di responsabilità reciproche; a nessuno stato sono imputabili problemi di dissolutezza nella gestione delle finanze pubbliche come avvenuto durante le crisi finanziarie e dei debiti sovrani del 2008-2012 che potevano in parte giustificare la cautela di quel preciso momento storico.
I paesi “core”, ed in prima fila la Germania, non dovrebbero quindi indugiare neppure un attimo ad uscire dai loro schemi di ragionamento ormai pretestuosi, illogici ed insostenibili e dovrebbero dimostrare, almeno in questo momento così drammatico per le sorti dell’Europa e del mondo, di saper agire tempestivamente con un giusto senso di equilibrio e di equità. Iniziando finalmente a non contrastare ma a favorire tutte le iniziative idonee a mettere i paesi più vulnerabili in condizioni di adottare efficaci politiche di preservazione della ricchezza acquisita nella stessa misura in cui sono in grado di fare loro, grazie alla solidità che si sono creati per effetto degli enormi vantaggi che la moneta unica gli ha garantito.
Creare o utilizzare quindi uno strumento, che attraverso la garanzia di tutti gli stati dell’area euro raccoglie risorse sui mercati a condizioni vantaggiose per consentire a tutti di salvaguardare i propri sistemi produttivi e finanziari ed il proprio benessere sociale senza l’applicazione di alcuna stringente condizionalità, di fronte ad una situazione tanto drammatica come quella che stiamo vivendo, non dovrebbe trovare la benché minima resistenza perché rappresenta un atto logico, razionale, necessario e funzionale per tutti. E per tutte tali ragioni, l’Italia dal canto suo non si limiti a chiedere quello che le serve per pura solidarietà ma si impegni ad esigere fermamente, usando le giuste argomentazioni tecnico-politiche, tutto ciò che le è dovuto.
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