Ecco perché la richiesta di 6,3 miliardi fatta da Fca è a tutti gli effetti un ricatto
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Ecco perché la richiesta di 6,3 miliardi fatta da Fca è a tutti gli effetti un ricatto

Volkswagen, Bmw, Mercedes e Renault pagano le tasse laddove producono e fanno profitti. Da noi a chi batte cassa vanno poste delle condizioni, senza temere la grancassa degli opinionisti a cottimo

John Elkan
John Elkan
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Arturo Scotto Modifica articolo

17 Maggio 2020 - 16.30


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I nodi vengono al pettine. Ed è chiaro a tutti che l’attacco concentrico al governo Conte, guidato lancia in resta dalla nuova Confindustria di Bonomi, non era affatto un’operazione neutrale. Né semplicemente il grido di dolore di un pezzo del mondo delle imprese davanti all’incedere di una crisi economica senza precedenti.

Tradotto in italiano, era soltanto un modo tutt’altro che sofisticato di battere cassa. Lo sconto Irap generalizzato nel mese di giugno ne è l’esempio più palese e sfacciato. Lo prende chi ha pagato un prezzo al lockdown e chi ha quasi raddoppiato il fatturato. Tutti uguali, tutti sanati. Ancora una volta un pezzo delle classi dirigenti soffia sul fuoco del populismo antisistema per guadagnarci qualche soldo.

Sollevano il rischio di rivolta sociale la mattina, ma la notte trattano gli sgravi. La storia è antica: fa parte del rapporto irrisolto tra le famiglie principali del capitalismo italiano e lo stato. Quei 4 miliardi – maledetti e subito – potevano essere orientati alla domanda, alla qualità degli investimenti, all’innovazione tecnologica. Se servivano – e servono eccome – risorse per rilanciare il nostro tessuto imprenditoriale, la logica del fondo perduto a lungo termine rischia di fotografare soltanto la situazione esistente. Che non era buona nemmeno prima della pandemia, con un’incapacità del nostro sistema economico – soprattutto nelle fasce produttivo a basso valore aggiunto – di stare sul mercato internazionale. Già, perché nessuno lo ammetterà mai, ma la crisi di domanda era già evidente prima del Covid. E il dibattito sulla ripresa di uno Stato che programma, che investe, che intraprende cominciava a mietere consensi persino trasversali, benché facesse fatica a prendere quota, con qualche lodevole eccezione, nelle redazioni dei grandi giornali e nel campo dell’informazione più in generale.

Oggi questa discussione finalmente riesplode, anche se ha molti nemici, alcuni dei quali addirittura – berlusconiani fuori tempo massimo – urlano al ritorno dell’Unione sovietica ed altre castronerie simili. Patetici.

Un’interpretazione rigida del divieto degli aiuti di stato voluti dall’Unione europea ha impedito al nostro paese di proteggere l’industria nazionale o per lo meno di avanzare fusioni internazionali senza apparire come un partner di secondo livello. E oggi, dopo l’abbuffata dell’Irap, fa molto discutere il tema del ricorso al credito garantito dallo Stato da parte di alcune grandi imprese. Lo fanno anche quelle che negli anni hanno portato sede legale e sede fiscale altrove. Cosa che non è accaduto in Germania.

La Volkswagen, Bmw e Mercedes pagano le tasse laddove producono e fanno profitti. Oppure la Francia dove Renault in un paradiso fiscale sarebbe impensabile.

Al netto del giudizio morale – dopo che soltanto quest’anno gli azionisti si sono spartiti cinque miliardi e mezzo di dividendi dell’Fca non appena consumato il matrimonio con La Peugeot – colpisce la richiesta di 6,3 miliardi di prestiti. Il messaggio è implicito: o ci date questi soldi oppure prendiamo baracche e burattini e trasferiamo altrove. D’altra parte per chi viaggia tra Detroit, Amsterdam e Londra, gli stabilimenti di Pomigliano d’Arco piuttosto che di Melfi non sono altro che lucine accese sul mappamondo di una grande multinazionale. Possono tranquillamente essere spente e riaccese altrove.

Ricatto? Certamente. Possibilità di evitare questo ennesimo maxiprestito con danaro pubblico? Quasi nessuna.

E oggi fanno sorridere i tanti che si strappano le vesti, dopo aver indossato per anni maglioncini alla Marchionne, che quando la Fca scelse di lasciare il paese dall’alto dei ministeri economici che occupavano non dissero nulla, magari accusando il sindacato di essere conservatore perché non comprendeva il valore dell’internazionalizzazione della casa automobilistica di Torino.

Eppure uno spazio per una politica riformatrice c’è e va esplorato adesso. Senza infingimenti e senza paure. A chi batte cassa vanno poste delle condizioni, senza temere la grancassa suonata da opinionisti a cottimo: se lo stato paga, soprattutto per chi ha esposizioni bancarie notevoli, ha il diritto di dire qualcosa.

La musica deve cambiare.

A partire dalle imposte pagate all’estero, come proponeva giustamente Vincenzo Visco con una petizione promossa Nens sui paradisi fiscali: cominciate a rientrare o niente soldi.

Oppure dei Cda che devono prevedere una presenza del pubblico se quelle aziende vengono ricapitalizzate, come avanzava Andrea Orlando qualche tempo fa.

Non si tratta di collocare politici trombati – quelli li abbiamo visti recentemente sponsorizzati nei Cda delle grandi aziende pubbliche di stato nonostante per anni si siano atteggiati a liberisti della domenica – ma di difendere le risorse messe dai contribuenti.

Da tempo la Cgil propone alle imprese un nuovo patto che preveda l’ingresso dei lavoratori nella gestione diretta delle aziende, nella pianificazione degli investimenti, nell’orientamento dell’automotive sulla frontiera dell’ibrido, dove Fca sconta il ritardo più grande. Significa in parole povere dare avvio a una nuova stagione di politiche industriali. Che è qualcosa di più di aprire il Bancomat degli sgravi. La crisi ci impegna dunque ad alzare lo sguardo sul conflitto che è in corso: chi resta in piedi comanda in Italia nei prossimi anni.

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