Le relazioni fra Italia e Cina hanno una lunga tradizione di scambi economici e culturali, dal “Milione” di Marco Polo alla disputa su chi abbia inventato gli spaghetti, dal ruolo di Venezia come porta sull’Oriente per la Via della Seta agli artisti cinesi che espongono le loro opere alla Biennale. Oggi i buoni rapporti sono messi in crisi dall’aggressiva politica economica espansionistica del governo guidato da Xi Jinping. Il capitalismo di stato di Pechino si muove sul mercato con regole e dinamiche diverse da quelle che utilizzano le aziende occidentali. Per i governi, tra cui quello italiano, è arrivato il momento di decidere se stare a guardare o intervenire.
Iveco in vendita?
L’ultimo incidente diplomatico riguarda l’offerta d’acquisto presentata dal gruppo Faw, la principale casa automobilistica cinese, per entrare in possesso di tutte le attività commerciali di Iveco. L’offerta non è ancora stata formalizzata, ma ci sono già le prime reazioni: il governo italiano, per bocca del ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgietti, ha espresso preoccupazione e ha prospettato la possibilità di utilizzare il golden power (nella disciplina italiana si definisce “golden power” la facoltà garantita all’autorità pubblica di intervenire nelle transazioni di mercato riguardanti società qualificate come strategiche). Giorgietti ha dichiarato che la questione Iveco è “oggettivamente materia di golden power”. Iveco, società italiana con sede a Torino, ha un fatturato di circa 10 miliardi di euro, è fornitrice del ministero della Difesa e dà lavoro a circa 23 mila dipendenti, concentrati quasi completamente in territorio italiano.
Per tutti questi motivi, non sembra illogica la scelta protezionistica del governo italiano di pensare all’utilizzo del golden power, anche nel contesto di un ritorno deciso nella famiglia europeista e atlantica con la presidenza Draghi.
Le sanzioni della Casa Bianca stanno avendo effetto
Dall’altra parte dell’Oceano, intanto, il governo Biden sta mantenendo le sue promesse elettorali e procede nella sua aggressiva campagna per ridurre e regolare l’egemonia cinese sul mercato delle tecnologie e dell’elettronica. Le sanzioni statunitensi sulle aziende cinesi stanno avendo effetti concreti. Il governo di Pechino sta già comprando tecnologia di seconda mano sul mercato giapponese, ed è uscita pochi giorni fa la notizia di una maxi fusione fra due colossi cinesi che lavorano in sinergia con l’esercito: China Electronics Technology Group, un’azienda statale che ha il monopolio di forniture tecnologiche per l’Agenzia Spaziale Cinese, e Potevio, un’altra azienda statale specializzata in comunicazione wireless e sicurezza. Potevio ha avuto difficoltà finanziarie in seguito alle sanzioni americane, problemi di liquidità che ha risolto con questa fusione: le due compagnie insieme hanno generato nel 2019 ricavi per quasi 50 miliardi di dollari, e formano la terza azienda cinese più grande dopo Huawei e Lenovo.
Le difficoltà di Huawei
A proposito di Huawei, il gigante delle telecomunicazioni cinese sta vivendo negli ultimi mesi una grande crisi finanziaria e di immagine. Huawei è una delle aziende cinesi che più è stata accusata di lavorare a braccetto con l’intelligence governativo, e le sanzioni statunitensi hanno colpito duro nell’ultimo anno, impedendo a Huawei l’acquisto di hardware, software e servizi made in USA. Si stima nel 2021 un crollo del 60% delle vendite di smartphone Huawei rispetto all’anno scorso. Gli effetti si vedono anche sul mercato interno: nel gennaio 2021 Huawei ha perso il suo ruolo di leader nel mercato degli smartphone in Cina, a favore di Oppo. Fonti interne all’azienda hanno rivelato addiritura la possibilità per Huawei di riadattare la produzione e provare radicali cambi di strategia, come per esempio l’ingresso nel mercato dei veicoli elettrici.
Un argomento che fin qui è passato un po’ sottotraccia in Europa, ma che dovrebbe essere una delle principali preoccupazioni dei governi occidentali nei confronti della politica industriale di Pechino, arriva da un altro mercato dove Huawei è molto attiva: quello dei pannelli solari. Huawei è leader mondiale nella produzione di inverter fotovoltaici, una sofisticata tecnologia che ha permesso un’ampia diffusione in Europa di centri di produzione di energia elettrica solare, ma che ha lo svantaggio di essere manipolabile da malintenzionati con le competenze necessarie, come per esempio gli hacker legati al governo cinese.
Nell’opinione pubblica si inizia a discutere della sicurezza degli inverter fotovoltaici: un malintenzionato potrebbe sabotare digitalmente a distanza i pannelli solari, con conseguenze potenziamente letali per settori strategici come per esempio la sanità, le infrastrutture e la sicurezza. Considerati i legami di Huawei con il governo cinese, è fondamentale che sia garantita da terzi la protezione di queste tecnologie da attacchi digitali. Mentre in Europa si tentenna sulle regolamentazioni, negli Stati Uniti forti pressioni politiche hanno portato Huawei a chiudere una parte delle sue attività nel business dell’energia solare sul suolo statunitense.
Nel suo primo discorso alle Camere, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha promesso un deciso cambio di passo rispetto al precedente governo, che aveva assunto una posizione ondivaga nei confronti della Cina. È il momento di dimostrarlo con i fatti. L’amministrazione Biden è l’esempio di come si possa intervenire per fermare l’espansione sul libero mercato di aziende che possono sfruttare forti connessioni con il governo cinese. L’Italia nel 2020 ha visto una contrazione del proprio Pil di più dell’8%. Nello stesso periodo, il Pil cinese è cresciuto del 2,3%.
In un contesto economico strapazzato dalla pandemia e dalla crisi economica, le politiche protezionistiche e l’utilizzo di sanzioni non sono un tabù, anzi, sembrano più una risorsa da usare.