di Stefano Miliani
“Popolazione, sviluppo ambiente” sono temi intrecciati che incrociano necessariamente fenomeni come l’emigrazione ai cambiamenti climatici; gli scienziati lo sanno ma occorre una consapevolezza diffusa per influenzare le strategie politiche, altrimenti in politica rischia di prevalere il “negazionismo” sul clima. Dette in altro modo sono le riflessioni di Massimo Livi Bacci, professore di Demografia alla facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’università di Firenze, esponente del Partito democratico, in vista del convegno “Popolazione, sviluppo ambiente” (con punto interrogativo nella grafica del manifesto) di venerdì 22 alle 16.30 alla Fondazione Stensen di Firenze (viale don Minzoni 25/C) organizzato dalla Fondazione Neodemos.
I relatori parlano di impatto del riscaldamento globale, di mortalità legata alla salute e alle condizioni ambientali, delle migrazioni causate dai disastri nell’ambiente in Africa. Bacci, uno dei principali studiosi di popolazioni e fenomeni demografici, è tra i fondatori di Neodemos.
Professore, nel convegno parlate delle migrazioni di oggi. In che termini? I cambiamenti climatici sono tra le cause delle migrazioni dall’Africa all’Europa?
Il convegno è centrato sulla questione italiana e, per quanto riguarda l’Africa, le migrazioni possono interessare anche il Mediterraneo. Sarei cauto nel collegare la desertificazione nel continente africano, che ci sarà, con i flussi migratori nel Mediterraneo: è una possibilità, non una certezza. Certo, la desertificazione aumenta l’instabilità e la povertà di vaste zone dell’Africa e può indurre a emigrare: in parte sarà interna al continente africano ma non è escluso che possa interessare l’Europa, il Mediterraneo e quindi l’Italia.
Piercesare Secchi del Politecnico di Milano nel suo intervento al vostro appuntamento parla di “geografia umana e rischi naturali”. Quale scenario emerge?
È il punto che vogliamo affrontare: qual è lo stato di fragilità del paese, qual è la geografia della fragilità italiana. Secchi utilizza dati a livello comunale che contengono quegli indicatori di possibili fragilità: rischi di terremoto, idrogeologici come inondazioni e frane, la fragilità del patrimonio abitativo che dipende da come sono costruite le case. Emerge un quadro di zone dalla fragilità molto elevata perché sono sismiche come tutta la parte dell’Italia centrale colpita dai recenti terremoti, ma non è a rischio solo quell’area: il terremoto nella Pianura Padana nella provincia di Modena del 2012 è avvenuto in una zona che tradizionalmente non era sismica. Quel rischio riguarda anche le aree costiere per il cambiamento climatico.
C’è chi lo nega.
Lo nega solo lo 0,1 per mille degli scienziati con la testa a posto, lo si nega a livello politico perché il negazionismo serve: il riscaldamento globale è conseguenza delle attività umane industriali e di consumo. Quanto grave e veloce sia l’impatto, come si potrà accentuare è altra questione, è l’attività umana che lo determina. Comunque vi confluiscono due fenomeni: il cambiamento climatico e la subsidenza (quando un territorio si abbassa, ndr) con l’accrescimento livello del mare: quando i due fenomeni si combinano le aree fragili diventano quelle costiere.
L’Italia ha moltissime aree costiere fragili che corrono questo rischio.
Lo è buona parte della costa adriatica, tutto il bacino di Venezia, potrebbero essere la Versilia come le aree più densamente popolate e più soggette a fenomeni di inondazioni, penso a Livorno in Toscana, alla Liguria che è vulnerabile e i nubifragi fanno danni enormi. Bisogna avere un’idea della vulnerabilità del paese e insieme sapere che per la desertificazione ci sono aree interne che diventeranno più aride.
Dove, per esempio?
Per esempio la Sicilia centrale: dovranno adattarsi. Ci si può adattare alle mutate condizioni, importante è non costruire megalopoli nelle zone fragili; oppure la zona vesuviana: è densamente popolata e se le politiche avessero evitato di concentravi la popolazione non sarebbe stato male. Quindi bisogna incrociare le fragilità del territorio, gli insediamenti e vedere come guidarli.
Certa politica non ci sente da questo orecchio: pensiamo ai condoni abitativi.
Certo e spesso investono aree fragilissime come quelle vicine alla battigia del mare.
Scusi come può contribuire un convegno?
È necessario migliorare la conoscenza di questi fenomeni che fino a un paio di decenni fa erano sconosciuti e vanno invece analizzati bene anche in un contesto mediterraneo.
Bisogna partire dagli studiosi e dagli scienziati?
Per forza: il cambiamento climatico è analizzato da legioni di scienziati. L’International Panel for Climate Change sotto l’egida dell’Onu ne raduna centinaia: la conoscenza del cambiamento climatico è aumentata moltissimo negli ultimi tempi e serve.
A proposito: Greta Thunberg è diventata il simbolo di una battaglia sul clima ma c’è chi le dà di “gretina” e chi invece ascolta.
Greta è il sintomo di maggiore sensibilità dei giovani verso questi fenomeni ed è un bene.
Uno slogan della giovane svedese e di molti altri ragazzi è che a loro è stato rubato il futuro.
È la retorica, tutte le generazioni rubano a quelle successive un po’ di futuro. L’importante è che si diffonda una conoscenza e quindi anche una coscienza che lo spazio è limitato e delicato: il pianeta va trattato bene. Un papa, Francesco, ha fatto un’enciclica sul tema: cinquanta anni fa non sarebbe avvenuto. Quindi la sensibilità aumenta. Che ciò basti è un altro discorso ma è necessaria: non si costruisce consenso politico senza una coscienza avvertita dalla popolazione. Almeno io la vedo così: non si risolvono questi problemi a breve, richiedono un’azione continua, prolungata, strategie e un minimo di consenso tra le forze politiche. Non c’è un terremoto di destra e uno di sinistra, ma c’è bisogno di buona divulgazione: a chi fa informazione non si chiede di essere scienziati ma di informare bene in maniera equilibrata.