Quando Andreotti mi raccontò della Cia in Italia
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Quando Andreotti mi raccontò della Cia in Italia

In un colloquio mi spiegò il ruolo della Cia, che spiava e combatteva molti democristiani come i comunisti. E sui fascisti disse: manovrati.

Giulio Andreotti
Giulio Andreotti
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Gianni Cipriani Modifica articolo

14 Gennaio 2019 - 18.11


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Pochi ricordano che Giulio Andreotti, tra i mille incarichi che ha avuto, da senatore a vita fu componente della commissione Mitrokhin, ossia quel carrozzone voluto da Silvio Berlusconi per indicare nei comunisti e nel Kgb i responsabili di tutti i mali d’Italia (oltre che del mondo) nonché far passare Romano Prodi come una spia al soldo dei sovietici.


Andreotti, all’epoca, aveva una posizione di “terzietà” rispetto ai fronti contrapposti: da un lato Paolo Guzzanti e i suoi (tra cui il mitico consulente Scaramella) che fabbricavano teorie; dall’altro Ds, Margherita e altri gruppi di sinistra che replicavano.

In mezzo Andreotti, che osservava quasi divertito una partita che in teoria non avrebbe dovuto interessarlo troppo, ma che politicamente chiamava in causa il ruolo della Democrazia Cristiana: sostenere che l’Italia fosse stata per 50 anni o giù di lì nelle mani dei comunisti e dei sovietici (tesi cara a Berlusconi e ai suoi) era troppo perfino per lui che era stato parte organica di uno schieramento che i comunisti aveva combattuto, non sempre con mezzi ortodossi, come quelli che si sono occupati della storia d’Italia da Portella della Ginestra in poi sanno bene.


Tant’è che rimase celebre – nella commissione – una sua tagliente battuta fatta al presidente della Commissione, Paolo Guzzanti, che invocava “luce sui misteri”. “Con troppa luce – disse Andreotti – ci si abbaglia…”. Come dire: occhio che state prendendo cantonate a ripetizione.

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Fu in quella occasione che ebbi il mio primo e ultimo colloquio con Andreotti. All’epoca ero consulente della Commissione, quindi partecipavo alle sedute senza diritto di parola, ovviamente, ma con il ruolo che avevano i consulenti: suggerire ai parlamentari le domande da fare, le obiezioni da porre e “tradurre” le risposte dei vari testi. Sempre con fogliettini scritti al volo o frasi sussurrate in un orecchio del parlamentare che si sedeva al nostro fianco.
Al termine di una di quelle audizioni, non so perché, il senatore Andreotti si avvicinò a me e a Francesco Maria Biscione, anche lui consulente, e attaccò bottone. Se ben ricordo si trattò di una battuta a commento di una audizione particolarmente penosa, come spesso capitava.


Poi attaccò a raccontare, ricollegando qualche episodio di cui si era discusso a vicende accadute quando lui era il “potente” Andreotti, grande conoscitore di tutti i misteri italiani. Cominciò con il raccontare la figura controversa (chi si è occupato di misteri d’Italia la conosce bene) di padre Morlion, un domenicano belga a capo della Pro Deo, ente religioso chiacchierato perché sospettato di essere una emanazione della Cia. Morlion era una sorta di grande vecchio. Il suo nome saltò fuori sia durante il caso Moro che nelle indagini sull’attentato al Papa. “Ma certo che lavorava per gli americani – disse Andreotti con nostra grande sorpresa – del resto durante una mia visita negli Stati Uniti mi furono mostrate delle carte. Così capii che tutto quello che avevo detto a Morlion durante i nostri incontri era stato immediatamente trasformato in un rapporto, poi inviato a Washington. Lui aveva quell’incarico, ossia vigilare sulla politica”.

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Andreotti era stato colui che, con grande disappunto di Cossiga, aveva avviato l’iter perché si ammettesse l’esistenza di Gladio. Fu così che gli chiedemmo del ruolo della Cia in Italia, visto che lui aveva cominciato a parlarne. Non ricordo le parole esatte (a differenza di quelle su Morlion) e quindi non mi azzardo a fare virgolettati. Ma il senso di quelle parole fu che loro, i democristiani, dovevano fare una specie di slalom per tenere insieme la loro politica nell’ambito del guinzaglio stretto imposto dalla guerra fredda. E che molti di loro erano spiati e invisi a Washington non meno dei comunisti. Anche il neofascismo, altra cosa che mi colpì, era uno strumento utile a una stabilizzazione del potere contro possibili fughe in avanti.


In due parole, tutto quello che i ricercatori meno ossequienti con il potere che per anni avevano studiato documenti e atti processuali (non gli altri che sproloquiano di cose che non conoscono nel merito) avevano sempre sostenuto, non senza andare incontro a una qual certa ostilità o accusa di estremismo.

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Ricordo come fosse ieri che, dopo una decina di minuti di piacevoli racconti rivelatori, subito dopo esserci salutati mi girai verso Francesco Biscione commentando: “E meno male che i dietrologi eravamo noi. Peccato non aver avuto il registratore”.

Dal mio punto di vista, da anni quei misteri non sono più misteri. Ma, per dirla alla Pasolini, verità conclamate. Mi fece solo piacere sentire dalla viva voce di Andreotti quello che in tanti avevamo sempre sostenuto.

Peccato che quelle vicende non siano più patrimonio condiviso della sinistra: gli eredi del Pci, nell’ansia di diventare una forza politica affidabile agli occhi di Washington, si sono affrettati a dimenticare, ridimensionare, revisionare. Ma questa è un’altra storia e, magari, la racconteremo a tempo debito.

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