Non è più una guerra civile. Non è più una guerra per procura. Ora quella in Libia è diventata una “guerra santa” contro l’invasore ottomano. Parola dell’uomo forte della Cirenaica, il maresciallo generale Khalifa Haftar. E in una “guerra santa” non c’è spazio per tour diplomatici. Della ventilata missione di alcuni ministri degli Esteri europei, tra i quali Luigi Di Maio, a Tripoli e Bengasi non si hanno più notizie.
“Ragioni di sicurezza fanno propendere per un rinvio”, confida a Globalist una fonte della Farnesina. Certo, la sicurezza non alberga a Tripoli, sotto bombardamento delle forze pro-Haftar, ma la ragione vera di un quanto mai probabile rinvio della missione del 7 gennaio, è che il suo fallimento sarebbe stata una certezza. Perché in una “guerra santa” non c’è spazio per tregue, compromessi, mediazioni. L’unica “diplomazia” che viene praticata è quella delle armi.
Guerra santa.
La battaglia per Tripoli di Khalifa Haftar diventa una “guerra santa” per difendere la Libia da una preannunciata invasione turca. Ieri un raid aereo delle forze del generale contro l’Accademia militare di Tripoli ha causato almeno 28 morti e quasi 20 feriti fra i miliziani-cadetti. “Ci sono morti ovunque e molti feriti” ha raccontato uno dei soccorritori ancora al lavoro per estrarre i corpi da sotto le macerie. Le forze del generale hanno però sostenuto di aver preso di mira un raggruppamento di cento miliziani presso l’Accademia che si preparava a partecipare ai combattimenti in corso e di averne uccisi almeno 70. Sulla responsabilità dell’incursione non ci sono però certezze perché il generale Khalifa Haftar ha smentito di essere stato il mandante della rappresaglia. La precisazione è arrivata dopo che nella mattinata del 5 gennaio un portavoce del generale, Khaled Al-Mahjoob, aveva rivendicato, in una dichiarazione ad Alhurra TV, la responsabilità dell’attacco aereo sulla scuola militare di Tripoli. “I cadetti di quel college sono miliziani”. Ma la rivendicazione sarebbe poi stata smentita dallo stesso portavoce e bollata come una “fake news”. La rivendicazione sarebbe coerente con le ricostruzioni fatte circolare sui siti vicino al generale Haftar, secondo cui nell’Accademia di polizia erano concentrati alcuni dei miliziani siriani che il governo turco avrebbe spostato in Libia per farli combattere dalla parte di Sarraj. Quindi non cadetti di polizia, ma combattenti per il Governo di Accordo Nazionale.
Il generale non riesce ad entrare in città, le milizie alleate di Sarraj riescono a tenere i suoi mercenari alla periferia. Ma Haftar bombarda pesantemente dall’aria. Oltre a colpire con razzi Grad l’aeroporto “Mitiga” di Tripoli, il generale sabato ha compiuto anche un attacco con droni a una caserma della milizia “Nawasi” all’interno della base navale di Abu Sitta. È la base in cui è ormeggiata la nave della Marina Militare italiana che offre assistenza tecnica alla Guardia costiera libica.
Nei giorni scorsi l’uomo forte della Cirenaica aveva lanciato una chiamata alle armi a tutti i libici perché imbraccino i fucili in risposta a un eventuale intervento militare turco. Noi accettiamo la sfida e dichiariamo la jihad e una chiamata alle armi”, ha detto durante un discorso trasmesso in tv, invitando “uomini e donne, soldati e civili, a difendere la nostra terra e il nostro onore”. Haftar ha insultato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, dandogli dello “stupido sultano”, e accusato Ankara di essere intenzionata a “riprendere il controllo della Libia”, che è stata una provincia dell’Impero Ottomano fino alla conquista coloniale italiana nel 1911. La Turchia era già presente in Tripolitania al fianco del GNA, con una ventina di droni, armi e mezzi pesanti e infine con un centinaio di mercenari che erano stati addestrati da Ankara per il conflitto siriano. Tuttavia, prima con l’annuncio del 10 dicembre, poi con la risoluzione del 2 gennaio, Erdogan è uscito allo scoperto, dichiarando apertamente la sua volontà d’intervenire militarmente in Libia. “In questo modo Erdogan svela l’inconsistenza del processo di pace e del negoziato multilaterale avviato dalle Nazioni Unite e sposta l’attenzione sulla disputa sulle risorse del fondale mediterraneo”, spiega Francesco Strazzari , docente di relazioni internazionali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, alla giornalista di Internazionale, Annalisa Camilli, profonda conoscitrice della realtà libica. La Turchia può permettersi di scoprire le carte e di uscire allo scoperto, tuttavia, perché gli Stati Uniti si sono ritirati da quel fronte. “Gli americani sono fuori dalla Libia, ma anche dal Sahel e da tutta l’Africa. Il loro mandato strategico è solo quello di contenere la Cina e la Russia al livello globale, ma si stanno ritirando da tutti i fronti africani. Questo ha aperto uno spazio che ha permesso alla Russia e alla Turchia di definirsi come nuovi protagonisti e di rivendicarlo pubblicamente”, continua Strazzari. In ogni caso in questa nuova fase del conflitto libico si aprono tre fronti: “Quello guidato dalla Turchia, finanziata e appoggiata dal Qatar in sostegno della Tripolitania, il fronte dell’Egitto a sostegno di Haftar, appoggiato dalla Russia, dagli Emirati Arabi Uniti, dalla Giordania e dall’Arabia Saudita e quello dei paesi come Grecia, Cipro e Israele che sono pronti a intervenire militarmente a difesa dei loro interessi nel Mediterraneo”.
Oggi, la Libia è il terzo partner commerciale della Turchia in Africa. Sono innumerevoli i trattati bilaterali tra i due paesi, tra i quali vanno ricordati l’Accordo per il rafforzamento della cooperazione economica e tecnica (1975) e l’Accordo bilaterale per gli investimenti e la protezione (2009). I due paesi hanno inoltre deciso di dar vita, l’anno prossimo, a un accordo di libero scambio. Non basta. La Turchia è tra i maggiori investitori in Libia. Sono stati firmati accordi per realizzare progetti d’intervento in Libia, in particolare nel settore delle infrastrutture, che superano i venti miliardi di dollari. In termini di quantità di lavoratori impiegati nella realizzazione di opere all’estero da parte della Turchia, la Libia è il secondo mercato dopo la Russia.
Geopolitica e affari: la crisi siriana ha fortemente indebolito le rotte del petrolio da Arabia Saudita, Iran, Iraq e stati del Golfo. E questo ha portato Ankara a puntare decisamente, nella “battaglia del petrolio”, al sud del Mediterraneo e dunque alla Libia. Mentre altri patteggiavano sotto traccia con milizie o andavano alla ricerca, in terra libica, di improbabili uomini forti a cui affidare il ruolo di gendarme del Mediterraneo, la Turchia ha sviluppato una penetrazione a trecentosessanta gradi, dalla cultura all’alimentazione. I turchi hanno aperto a pioggia ristoranti e negozi, mentre diciannove miliardi di dollari sono stati investiti nel campo delle costruzioni attraverso la Turkey Contractors’ Association. La penetrazione avviene anche via “cielo”. La Turkish Airline ha riattivato, lo scorso mese, i voli per Misurata (centro principale della comunità di origine turca in Libia e città-chiave nella determinazione dei nuovi equilibri di potere nel Paese) e analoghi progetti riguarderanno Tripoli, quando l’aeroporto internazionale verrà posto in sicurezza.
Condanne senza seguito
La rappresaglia è stata condannata duramente dalla Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) e dall’Alto Consiglio di Stato di Tripoli che hanno espresso vicinanza ai familiari delle vittime e al popolo libico. Il Governo di accordo nazionale libico di Tripoli riconosciuto dalla comunità internazionale ha chiesto una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite “per discutere delle atrocità e dei crimini di guerra di Haftar”. Intanto il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha messo in guardia la Turchia (senza farne esplicita menzione) dall’invio di truppe in Libia: “Qualsiasi sostegno straniero alle parti in guerra” nel Paese, ha affermato, “non farà che aggravare il conflitto e complicare gli sforzi per una soluzione pacifica”. Guterres ha sottolineato in un comunicato che “le continue violazioni dell’embargo sulle armi imposto dal Consiglio di sicurezza non fanno che peggiorare le cose”.
In ginocchio dal faraone
In attesa di potere rimettere piede sul suolo libico, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, volerà l’8 gennaio al Cairo, dove è stato invitato dal collega egiziano Same Shoukry a partecipare a una riunione sulla Libia insieme ai rappresentanti di Grecia, Cipro e Francia. Al telefono con il ministro egiziano, Di Maio ha ribadito che “occorre moderazione per evitare un ulteriore deterioramento della situazione e riavviare il dialogo tra le parti”. Peccato che l’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi sia uno dei Paesi sostenitori del generale Haftar. Il titolare della Farnesina ha poi aggiunto che “l’Italia sostiene fermamente il processo di Berlino, unica via per risolvere pacificamente la crisi ed evitare la destabilizzazione del Paese e altre sofferenze alla popolazione libica”. Di Maio ha chiesto di incontrare anche i colleghi di Tunisia e Algeria. Dopo l’incontro al Cairo, dunque, sarà a Tunisi e ad Algeri il 9 e il 10 per rimettere la Libia al centro dello scacchiere estero italiano nel Mediterraneo. Un ambizioso proposito che ha un limite non da poco: nella partita libica l’Italia è ormai stata relegata a bordo campo. I players sono altri e stanno ad Ankara, al Cairo, a Riyadh, in Qatar, negli Emirati arabi e, andando oltre gli attori regionali, a Mosca. A Tripoli milizie e ambienti politici vicini alla Turchia stanno lanciando manifestazioni e contestazioni anti-italiane e anti-europee. Gli slogan dicono che “è tardi, non ci avete difeso per tempo, adesso è inutile che veniate a Tripoli”. Più che un invito, è un avvertimento. L’italico cerchiobottismo, soprattutto se praticato da dilettanti allo sbaraglio, non paga. Pensarsi furbi è un peccato di presunzione in generale, ma quando si maneggiano dossier esplosivi come è quello libico, è una prova di irresponsabilità che può costare cara, molto cara.