Per provarci ci ha provato. Si è speso di persona, ha spedito lo spaesato ministro degli Esteri in giro per il Nord Africa e a Bruxelles. Non è mancata la determinazione al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nel provare a far rientrare l’Italia nella “partita libica”. Solo che il tempo è scaduto, e a decidere il futuro del Paese nordafricano sono altri player, che si trovano a Mosca, ad Ankara, al Cairo, negli Emirati Arabi Uniti, non certo a Roma né a Bruxelles.
Conte ci prova
Erano attesi entrambi a Roma i due protagonisti della crisi libica: i due avversari, il premier di Tripoli Fayez Al Serraj e il generale Khalifa Haftar, per un incontro con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il generale Haftar è effettivamente arrivato a Palazzo Chigi per un faccia a faccia durato tre ore. Successivamente, alle 18.30, Conte avrebbe dovuto incontrare Al Serraj.
Ma l’appuntamento sembra essere saltato. Il premier di Tripoli ha cancellato il viaggio a Roma, forse infastidito dalla fuga di notizie. Forse perché non sapeva dell’arrivo di Haftar.. L’incontro tra Haftar e Conte a Palazzo Chigi arriva dopo una serie di incontri avvenuti nella giornata di ieri quando il ministro degli Esteri Luigi Di Maio a Bruxelles ha visto i colleghi di Francia, Gran Bretagna e Germania e l’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Borrell. “L’Ue non può restare immobile, l’Ue non può mostrarsi divisa ma deve parlare con una sola voce” scrive su Facebook il Di Maio che si trova al Cairo dove ha partecipato a un vertice sulla Libia, prima di volare in Tunisia e Algeria. Proprio questo incontro, con gli altri ministri di Grecia, Egitto, Cipro e Francia, si è concluso con l’Italia che non ha firmato la dichiarazione conclusiva giudicandola troppo sbilanciata, con Di Maio che ha invitato alla moderazione al fine di non spaccare l’Ue: il capo politico del M5s ha dichiarato di essersi “battuto per smussare la dura posizione degli altri Paesi nei confronti della Turchia e di Sarraj. Il processo di Berlino non ci deve vedere sbilanciati da una sola parte”. “Stamattina Borrell – ha aggiunto – ha incontrato Sarraj. Stiamo lavorando duramente e dobbiamo sentire tutti il peso delle nostre responsabilità. Non dobbiamo spaccare l’Unione europea in questo momento”. Il titolare della Farnesina ha smentito inoltre la possibile rinascita della missione Sophia: “Pensiamo invece che servano misure serie per attivare e soprattutto far rispettare un embargo complessivo via terra, via aerea e via mare nel Mediterraneo. Bisogna smetterla di vendere armi, bisogna fermare ogni interferenza esterna in Libia”. Un passaggio su cui risponde l’ex ministra della Difesa Roberta Pinotti: “La missione Sophia – twitta – aveva tra i suoi compiti anche controllo embargo delle armi verso la Libia”.
Sarraj insiste
Il fatto è, come anticipato nei giorni scorsi da Globalist, è che il premier libico dall’alleato italiano pretende molto di più di una iniziativa diplomatica senza risultati, né si accontenta dell’addestramento fornito da Roma alla Guardia costiera libica. Vuole armi, il premier sempre più stretto nell’enclave di Tripoli, droni, missili, artiglieria pesante. Una richiesta che si estende all’Europa. A Bruxelles, Il premier libico ha visto il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, quello dell’Europarlamento, David Sassoli, e l’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell. Al termine del meeting, al-Sarraj ha pe voluto ribadire quali siano le necessità del Governo di Accordo Nazionale: “Abbiamo il diritto di concludere trattati e convenzioni con chi vogliamo – ha detto – Lo abbiamo fatto in trasparenza. Non abbiamo raccolto mercenari, né combattenti del Sudan o del Ciad. Siamo determinati a proteggerci e nessuno ci leverà questo diritto”. Sarraj ha poi definito “molto produttive” le discussioni con i “responsabili europei”. “Non vogliamo – ha concluso – che la Libia divenga un terreno di scontro, di guerre per procura. Vogliamo che l’aggressore f(Haftar, ndr) ermi i suoi attacchi contro il governo legittimo libico, riconosciuto a livello globale. Questo governo è legittimo e può fare appello agli alleati e alle altre parti per difendersi”. E per difendersi non servono parole, ma armi.
Arrivano i turchi
La Turchia ha inviato in Libia un primo contingente di 35 soldati a sostegno del governo di al-Sarraj. È il primo segno tangibile dell’egida sotto cui Ankara vuole mettere il Paese nordafricano dilaniato dalla guerra civile. Tangibile, seppur simbolico: i militari turchi avranno “un ruolo di coordinamento” a supporto di Tripoli – ha precisato Erdogan in una riunione con il suo partito -, “non combatteranno” e “anche i militari che verranno inviati in seguito non parteciperanno ai combattimenti”. Un’iniziativa partita “su richiesta del Governo di accordo nazionale libico”. I turchi, insomma, si occuperanno dell’addestramento delle truppe di al-Sarraj e sotto il profilo del coordinamento “sarà come in Siria“ Il grande protettore ottomano di al-Saraj ha incontrato oggi lo sponsor principale, assieme all’Egitto, di Haftar: il presidente russo Vladimir Putin. Mosca sostiene di fatto l’umo forte della Cirenaica. Il presidente turco ha denunciato la presenza sul terreno di circa 2.500 mercenari russi del gruppo Wagner, ma Mosca ha smentito di nuovo. La notizia più importante uscita dal meeting tra i due capi di Stato è però che entrambi hanno chiesto un cessate il fuoco dalla mezzanotte del 12 gennaio, come riferito dal ministro degli Esteri di Ankara, Mevlut Cavusoglu. “Una pace solida e stabile in Libia può essere raggiunta solo mediante un processo politico condotto ed effettuato dai libici e basato su un dialogo franco e inclusivo fra loro”, hanno detto i due leader in una dichiarazione congiunta, aggiungendo che “scommettere su una soluzione militare del conflitto porterebbe solo a ulteriori sofferenze e renderebbe più profondi i dissidi fra i libici”.
L’allarme-Misurata
Ieri, da Bruxelles, Di Maio aveva già parlato del pericolo terrorismo per l’Italia. Ma, come sottolineato dal ministro degli Esteri, non è l’unico fattore di cui Roma dovrebbe preoccuparsi. L’instabilità e le condizioni di sicurezza sempre più precarie, infatti, non fanno altro che favorire l’azione dei trafficanti di umani, dando il via libera all’organizzazione di flussi di immigrazione clandestina da parte degli scafisti. Questo vale specialmente per la città portuale di Misurata, che ospita mezzo milione di abitanti e uno dei più grandi centri di detenzione del Paese, chiuso lo scorso 14 ottobre a causa delle condizioni disumane che vi regnavano. Anche con la chiusura del centro, tuttavia, Misurata è rimasta uno dei principali luoghi di partenza dei migranti che attraversano la Libia e cercano di attraversare il Mediterraneo: se la città, ora nel mirino di Haftar, dovesse cadere in mano alle truppe dell’uomo forte della Cirenaica, il caos che ne deriverebbe non farebbe altro che allentare il piano di contrasto ai trafficanti di uomini. Risultato? Partenze incontrollate dalla Libia, gestite da scafisti che lucrano sulla pelle dei migranti, e impossibilità per l’Unione europea, ma per l’Italia in primis, di venire a patti con le autorità locali nella gestione dei fenomeni migratori. In altre parole, un via libera senza condizioni alle milizie che gestiscono la rotta del Mediterraneo centrale.
Brutte intenzioni
Haftar avrà pure concesso a Conte una photo opportunity, intanto, per, sul campo non dimostra buone intenzioni nei confronti dell’Italia. Pochi giorni fa sono piovute le prime bombe, lanciate dagli uomini del generale, vicino alla nave della Marina Pantelleria. Il primo raid aereo sull’aeroporto di Misurata, dove si trova l’ospedale da campo dell’esercito italiano, risale al 18 luglio. Da allora altri undici attacchi. Il grave rischio per l’Italia è l’arrivo di migranti in fuga e di terroristi in libera uscita. L’Eni ha fatto immediatamente sapere che i suoi pochi tecnici italiani nel teatro si trovano sulle piattaforme marine, lontano dai combattimenti. Il 27 novembre scorso un attacco di Khalifa Haftar ha fermato il campo di al Feel, settecento chilometri a sud di Tripoli, gestito dall’Eni e dalla Noc libica. partire dal 2016 ha fornito 16 motovedette alla Guardia costiera libica. Il traghetto Pantelleria della Marina militare è nel porto di Tripoli per fornire assistenza. A bordo ci sono 50 uomini. Altri 300 dell’esercito sono nell’aeroporto di Misurata nel quale, dal settembre 2016, è stato allestito un ospedale da campo per curare i feriti delle milizie locali che hanno scacciato l’Isis da Sirte. Nel 2018 l’Eni ha ricavato dalla Libia un sesto della sua produzione, 302mila barili di petrolio equivalenti al giorno. Tutto questo ora è a rischio. Conte ci ha provato. Ma lo schiaffo di Sarraj lo ha tramortito.
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