Non bastavano i tagliagole e i mercenari reclutati dalle due parti in guerra e dai loro sponsor esterni. Nel caos libico, s’inserisce ora un’altra pagina inquietante, vergognosa: o combatti, o ti ammazziamo. Il ricatto ai migranti. Le parti impegnate nel conflitto in Libia stanno usando i migranti come combattenti. Lo denuncia l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati. ”Abbiamo le prove, da parte di persone che si trovano nei centri di detenzione, che è stata offerta loro la proposta di restare lì per un periodo indefinito oppure di combattere al fronte”, ha detto alla Dpa il rappresentante speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale, Vincent Cochetel.
Ricatto mortale
Al momento, Cochetel dice di non essere in grado di dire quanti migranti abbiamo accettato l’offerta. ”Se decidono di farlo, viene data loro una uniforme, un fucile e vengono immediatamente portati nel mezzo della guerriglia urbana”, ha aggiunto.”Abbiamo visto che questi tentativi di reclutamento” dei migranti ”riguardano prevalentemente i sudanesi – ha proseguito Cochetel – Riteniamo questa scelta motivata dal fatto che parlano arabo. Entrambe le parti” in conflitto in Libia ”sono coinvolte”, ovvero le milizie fedeli al governo del premier libico Fayez al-Sarraj e l’autoproclamato Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar.
Nel frattempo, preoccupa la presenza di soldati provenienti da Russia e Turchia sul territorio libico. La scorsa settimana il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato pubblicamente l’invio dei militari turchi in Libia a sostegno del Governo di accordo nazionale, guidato dal al-Sarraj, affermando che le forze armate di Ankara avranno per lo più funzioni di addestramento delle truppe di Tripoli. A sostegno delle milizie di Haftar ci sarebbero invece i mercenari russi del Wagner Group, un’organizzazione paramilitare e vicina al presidente Vladimir Putin. Anche se Mosca ha ripetutamente negato ogni coinvolgimento, il governo di Tripoli ha denunciato la presenza di circa 800 soldati russi al fronte. L’Unione europea ha ripetutamente denunciato l’implicazione di soldati stranieri nel conflitto libico. Qualche giorno fa, durante la plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo, l’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, denunciando le ingerenze di Russia e Turchia ha dichiarato: “Le cose ci stanno sfuggendo di mano. Noi europei, non volendo partecipare a nessuna soluzione militare, ci barrichiamo dietro la convinzione che non ci sia una soluzione militare”. Per poi tracciare un parallelo con il conflitto in Siria: “In Siria c’è stata una soluzione militare, portata dai turchi e dai russi”. Sottolineando che Bruxelles non possa accettare i “flussi di armi e mercenari” da Paesi terzi verso la Libia, Borrell ha avvertito l’Unione sui nuovi equilibri presenti nel Mediterraneo a causa dell’azione di Russia e Turchia. “Sono sicuro che nessuno sarebbe davvero contento se sulla costa libica, di fronte all’Italia, venissero poste una seria di basi militari della marina militare turca e russa, che controllerebbero entrambe le vie di immigrazione illegale verso l’Europa. Nel Mediterraneo orientale e ora anche in quello centrale”, ha aggiunto Borrell.
Tragedia umanitaria
Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) solo nelle prime due settimane del 2020 sono almeno 953 i migranti (tra cui 136 donne e 85 bambini) riportati in Libia dalla Guardia costiera. La maggior parte sono sbarcati a Tripoli e tutti sono stati portati nei centri di detenzione. Inoltre, sono tante le persone che continuano a scappare: le navi di ricerca e salvataggio delle ong negli ultimi giorni hanno salvato 237 persone. Tra loro anche famiglie di libici in fuga: almeno 17 sono stati salvati dall’ong tedesca Sea Watch, erano tutte su un unico barchino, 10 uomini e 7 donne, tra cui 9 minori.
“In Libia c’è una guerra, una situazione drammatica che negli ultimi mesi ha visto un’accelerazione con l’intensificarsi delle violenze e quindi con vittime, moltissime civili – spiega la portavoce di Unhcr Carlotta Sami -. Almeno 1 milione di persone ha bisogno di assistenza umanitaria. Da aprile ad oggi oltre 180mila libici sono stati costretti ad abbandonare le proprie case. Gli sfollati interni sono ormai più di 340mila. Unhcr non riesce ad avere accesso a tutte le zone della Libia. Ad esempio il sud del Paese e l’area di Bengasi sono irraggiungibili. Anche la via terrestre di accesso alla Tunisia è impraticabile”..
Il conflitto armato “rende la situazione quotidiana estremamente volatile e questo complica enormemente la costruzione e la messa a disposizione di soluzioni per i rifugiati e i richiedenti asilo presenti in Libia – aggiunge Sami -: registriamo come anche quando le autorità locali sono disposte a discutere della protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, non riusciamo poi a concretizzare perché esse stesse sono principalmente concentrate sulle problematiche relative al conflitto. Va detto che nonostante il conflitto le persone ancora arrivano dalle frontiere meridionali”.
Per questo Unhcr chiede un cambio di passo e un sostegno maggiore ai Paesi di primo asilo come Etiopia, Sudan, Ciad, per offrire condizioni di accoglienza e lavoro sostenibili. «Chi poi cerca di attraversare il Mediterraneo viene nella maggior parte dei casi intercettato dalla Guardia costiera libica, centinaia già nei primi mesi dell’anno. A questo proposito si è venuta a definire una nuova dinamica: «Il conflitto armato ha indebolito il coordinamento tra Guardia costiera e ministero dell’Interno libici nelle procedure di sbarco – aggiunge la portavoce di Unhcr -. Di conseguenza, non tutti i migranti sbarcati e i richiedenti asilo vengono oggi sistematicamente detenuti. Stimiamo che circa il 30% venga liberato al momento dello sbarco. Questo è positivo di per sé ma sicuramente l’Onu e i partner devono intensificare gli sforzi per fornire assistenza a queste persone. E resta il fatto che la Libia non è un porto sicuro”.
In tutto i richiedenti asilo rinchiusi nei centri di detenzione gestiti dal governo libico sono circa 2.500. La guerra per procura ha interrotto la fornitura di servizi essenziali da parte delle autorità, compreso il cibo. “Per questo motivo alcuni centri sono stati aperti per far uscire le persone ma da settimane assistiamo a una dinamica terribile: in tanti pagano per rimanere o entrare nelle carceri, convinti di poter essere selezionati da noi per le evacuazioni umanitarie. È un tragico equivoco: informati male e disperati pensano che questo sia l’unico modo per arrivare in Europa – spiega ancora Sami -. La realtà è diversa e il terribile dilemma che viviamo ogni giorno, lavorando in Libia, è dato dal fatto che non ci sono posti per tutti nei Paesi sicuri e noi siamo costretti a scegliere tra i casi più vulnerabili. I canali legali e sicuri sono troppi pochi”. Unhcr ha chiesto ai Paesi europei la disponibilità a ricollocamenti per almeno 5mila persone ma per ora le offerte di accoglienza beneficeranno meno della metà delle persone.
“Dobbiamo essere presenti perché ce lo impone il nostro mandato umanitario e dobbiamo dialogare con tutti gli attori in campo. Dobbiamo riequilibrare gli aiuti indirizzati ai rifugiati in detenzione, che sono comunque del 50 per cento rispetto ad alcuni mesi fa, e a quelli che vivono nelle città, nelle strade, senza riparo – conclude Sami -. Sono almeno 43mila le persone che spesso si trovano in una situazione umanitaria disastrosa e sono costretti ad adottare dei meccanismi di sopravvivenza molto danno si come il lavoro minorile, il matrimonio tra minorenni, la prostituzione e certamente i viaggi mortali attraverso il Mediterraneo. Vogliamo incrementare l’assistenza umanitaria per questi “rifugiati urbani” insieme ai nostri partner, attualmente riusciamo a fornire dei pacchetti di aiuto a circa 850 famiglie sul territorio di Tripoli, e di aumentare le soluzioni legali e sicure al di fuori della Libia”.
Mosca tende una mano
Non è l’Italia “ad aver fatto errori” nella crisi libica, dato che l’errore principale è stato compiuto nel 2011 quando la Nato decise di bombardare la Libia e l’Italia “non era tra i Paesi che hanno spinto per questa soluzione”. A sostenerlo ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov rispondendo a una domanda di Rai e Ansa in conferenza stampa. “Ora quel che serve è unire i libici e non è facile dato che Haftar e Sarraj non riescono nemmeno a stare nella stessa stanza”, ha osservato Lavrov, aggiungendo che vedrà il ministro degli Esteri Luigi Di Maio per un incontro la mattina della conferenza di Berlino.Il premier di Tripoli e l’uomo forte della Cirenaica – ha detto Lavrov, secondo l’Agi – non sono pronti al momento per contatti diretti. ”È molto importante che ora la
tregua venga osservata”, ha ribadito Lavrov. ”È un passo avanti certo e speriamo che venga preservata, preferibilmente per un periodo di tempo indefinito”, ha aggiunto, sottolineando come Haftar, nonostante non abbia firmato il documento di Mosca dopo i negoziati, abbia confermato di voler rispettare il cessate il fuoco. “La Russia sostiene la conferenza di Berlino, più Paesi prendono parte al processo di soluzione della crisi libica e meglio è: i documenti sono stati quasi tutti negoziati, sono in linea con la risoluzione dell’Onu e noi ci aspettiamo che il consiglio di sicurezza dell’Onu sostenga le conclusioni della conferenza”, ha dichiarato Lavrov, sottolineando che la cosa più importante, dopo Berlino, è “non ripetere gli errori del passato”.
Il generale Haftar, intanto, si trova ad Atene per colloqui in vista della conferenza di Berlino dalla quale la Grecia è stata esclusa. Lo riporta la Milli Gazete. Come ha mostrato la tv greca, Haftar è arrivato ad Atene ieri sera a bordo di un aereo privato, per essere poi trasferito in un hotel della capitale greca. Qui ha incontrato il ministro degli Esteri greco Nikos Dendias, che vedrà nuovamente questa mattina. Previsto per oggi un incontro tra Haftar e il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis. La Grecia ha contestato l’accordo sulla sicurezza e i confini marittimi che il Governo di accordo nazionale di Tripoli ha firmato con le autorità di Ankara.